Affascinati e ispirati tanto dalle possessioni mistiche di Les maîtres fous quanto dal rimettersi in scena etnografico elaborato insieme ai non-attori di Petit à petit, i giovani autori francesi Hadrien La Vapeur e Corto Vaclav non hanno mai fatto mistero di essere stati, lungo il loro percorso, profondamente influenzati da Jean Rouch. Non solo nel cinema che, dopo un paio di cortometraggi realizzati insieme, trova per la prima volta nei settanta minuti in co-regia di Kongo la sua forma lungometraggio, ma da molto prima, nelle scelte di vita, nelle passioni da seguire, negli interessi per l’umanità e nella formazione attraverso cui continuare a scoprirla e studiarla. Tanto che, negli anni in cui il cameraman La Vapeur si formava come cineasta prima da assistente di Philippe Garrel e poi da regista in solitaria di numerosi corti sperimentali in super8, Vaclav era impegnato all’università e sul campo a specializzarsi in antropologia, per poi decidere solo di recente e probabilmente su spinta proprio dell’amico e co-regista Le Vapeur di avvicinarsi alla settima arte perfezionandosi nella registrazione dell’audio. Un connubio nel quale in un certo senso il “vero” film, il “vero” lavoro, sono i rapporti etnografici e umani che gli autori instaurano con i soggetti locali nel corso della fase preparatoria, mentre la realizzazione materiale della scrittura del canovaccio, delle riprese e del montaggio è solo l’ultima tappa di un lungo periodo passato insieme a viaggiare attraverso l’Africa e a viverla, a cercare di capirla, a integrarsi, a dare e ricevere fiducia, a entrare a far parte dei villaggi e delle vite delle persone di un luogo e di una cultura lontana fino a dischiuderne l’animo e ad afferrarne i misteri. Fino ad averne sufficientemente chiare le sfumature per poterle raccontare sullo schermo in una parziale finzionalizzazione, dove la traccia narrativa e la messa in scena sono semplicemente funzionali a documentare la più intima e pura realtà di una fetta di mondo. Per un cinema sincero e fatto di uomini, di società, di riti, di folklore, di credenze e di tradizioni, che trova un realismo puntuale e privo di didascalismi in qualche modo ancor più vero rispetto alla semplice osservazione.
Presentato in prima mondiale come chiusura di Acid a Cannes e ora riproposto in Internazionale.doc nell’ottima (a differenza di altre sezioni…) selezione di TFFdoc al 37mo Torino Film Festival, Kongo segue fra il documentario etnografico e la messa in scena di se stessi il guaritore Padre Jean Médard, che nella sua Chiesa Ngunza quotidianamente celebra i suoi riti antichissimi ed esoterici di candele, canti, feticci e bottiglie, invocando avi e sirene per aiutare gli abitanti di Brazzaville, pazientemente in coda per farsi esorcizzare, a scacciare gli spiriti maligni che attanagliano le loro vite. Succhia e sputa sangue dalle ferite, rinchiude entità invisibili dove non possono più nuocere, prepara unguenti magici e dissolve eventuali maledizioni e incantesimi, e quando sarà falsamente accusato di aver evocato un fulmine per colpire una casa e vendicarsi provocando la morte di due bambini sarà proprio un altro rito da compiersi direttamente di fronte ai giudici, la “prova del mortaio” con la quale invocare ancora una volta gli spiriti chiedendo espressamente loro di dare morte immediata in caso di menzogna, a convincerli della sua innocenza. Ma soprattutto Médard offre ai registi tutte le sue pratiche oscure e tutte le sue più radicate credenze religiose, tutti i luoghi sacri nei quali comunica con gli spiriti e tutte le possessioni che circondano la sua liturgia sospesa fra la Fede e la magia, tutti i suoi oggetti e tutti i suoi rimedi, tutta la possibile normalità del paranormale e tutti gli effetti benefici – poco importa, proprio come in Rouch, che siano frutto del reale misticismo di una manifestazione divina o dell’autosuggestione religiosa dei fedeli – che i suoi incantesimi hanno effettivamente su chi li riceve. Con tutta la centralità del suo ruolo nella comunità cittadina e con tutta l’ambiguità che questo comporta, senza nascondere nemmeno i cattivi consiglieri scacciati quando i fondi scarseggiano né la paura egoistica, in un certo modo ipocrita, peccaminosa e forse proprio per questo così sincera, di essere degradato dalla posizione sociale acquisita con le sue guarigioni.
Parla con le sirene rigorosamente nel bantu della lingua Kongo, il congolese padre Médard, ed è l’acqua, fra gli altri, l’elemento più importante per mettere in comunicazione i diversi mondi. Quell’acqua che piove dal cielo sulla Terra, quell’acqua delle magnifiche cascate dalle quali evocare le sirene, quell’acqua che scorre e zampilla quasi fosse viva. Ma anche, spostando radicalmente il discorso dall’atemporalità all’urgenza in quel prefinale che è probabilmente l’apice poetico e politico del film, quell’acqua che dai luoghi consacrati viene deviata (ma mai sconfitta, perché l’acqua non si può sconfiggere e i luoghi (d)a lei consacrati rimarranno sacri) dal capitalismo per fare posto alle trivelle della lunga mano cinese – «I cinesi hanno distrutto tutto» – e del sostanziale neocolonialismo/neoschiavismo che Pechino sta attuando sul Congo, fino a diventare perfetta metafora della crisi di un luogo contraddittoriamente sospeso fra il passato remoto delle tradizioni misteriche e il grigio presente/futuro dell’inarrestabile, opprimente e fagocitante avanzare di una città in rapidissima e tragica trasformazione. È l’acqua che scorre sui vetri e nella natura, è l’acqua in cui intrappolare il maligno, è l’acqua attraverso cui guardare (e magari ribaltare ancora una volta negli effetti della bottiglia) la città. È l’acqua da riversare in mare, da restituire alle sirene che hanno risposto all’invocazione di aiuto, mantenendo viva la propria Fede, la propria missione, il proprio ruolo così fondamentale per un’intera comunità che disperatamente cerca di sopravvivere nella sua identità. E importa relativamente che nel lavoro di continua improvvisazione dei non-attori nel ruolo di se stessi forse non proprio tutto torni alla perfezione. Importa relativamente che qualche punto della narrazione rimanga non perfettamente chiaro, e forse, nel momento in cui il Profeta muore, quando padre Médard corre di qua e di là per recuperare i suoi vestiti o per lo meno un pezzo di sartoria perfettamente identico, potrebbe non essere del tutto illegittimo vedere un (ulteriore) radicarsi dei dubbi, narrativi ed etici, nel non capire se il suo affrettarsi a essere eletto nuovo Profeta sia l’ennesimo e cristallino atto di Fede, la consapevolezza di dover rendere un servizio alla comunità oppure l’apice dell’ipocrisia di un ciarlatano che ha sempre e solo pensato a se stesso ingannando e assecondando le superstizioni degli astanti, e che nella morte del mentore ha in realtà visto un sostanziale vuoto di potere da riempire.
Un’incertezza destinata a rimanere nebulosa, che cambierebbe di certo e pure radicalmente la prospettiva su Médard, ma non intaccherebbe in alcun modo né la natura né l’etica dell’operazione cinematografica e umana di Hadrien La Vapeur e Corto Vaclav, capaci di portare sullo schermo con precisione realista e con reale condivisione con gli interpreti autoctoni la natura più intima di Brazzaville, il misticismo del feticcio e del paranormale, i rimedi alternativi di liturgia spirituale e le più o meno miracolose guarigioni effettivamente avvenute, il confine a volte labile fra religione e magia nera, l’ambiguità fra la Fede assoluta delle/nelle tradizioni africane e una vita potenzialmente votata a frodare l’altro, e al contempo una lucida riflessione sul tempo e sull’implacabile penetrare del Capitale anche laddove l’umanità è (o forse solo sembra) ancor più pura. Il resto, ben oltre le tempeste di sabbia e lo skyline il rapida evoluzione, ben oltre le trivelle e i processi, ben oltre le sirene e le catarsi, è semplicemente Mistero della Fede. Lo stesso mistero impenetrabile che interviene ogni volta che si sfiorano le zone più inspiegabili e oscure della liturgia e della devozione, lo stesso declinato in altra religione dalla Federica Di Giacomo di Liberami o dal William Friedkin di The devil and Father Amorth, lo stesso delle bambole voodoo che Médard giura di non aver mai realizzato ma trovate di fronte alla casa colpita dal fulmine, lo stesso della sepoltura trionfale che segue il funerale del Profeta. Lo stesso dei ragazzi pervasi da estasi e convulsioni durante le funzioni di padre Médard, lo stesso di ogni devoto di fronte a ogni evento apparentemente miracoloso, lo stesso di un tribunale regolare che prende con tutta la serietà che meritano le capacità di accedere al regno dei morti e di comunicare con gli spiriti potenti. Lo stesso dei segni di penna su carta che durante le estasi mistiche diventano le lettere con cui parlare e ricevere risposte dagli antenati e dagli spiriti evocati. Kongo, nel suo entrare in un popolo e sviscerarlo, vive insieme ai Kongo, soffre insieme ai Kongo, crede insieme ai Kongo, prega insieme ai Kongo. Ponendosi domande, probabilmente inevitabili per l’occhio europeo e occidentale, non sempre destinate a trovare risposta, ma senza mai mettere in dubbio la profondissima dignità di un ceppo etnico, le sue tradizioni, i suoi riti, la sua Fede. La sua acqua che da qualche parte ancora zampilla, preannunciando che da qualche altra parte, nel mare, una sirena sta ancora una volta ascoltando le preghiere di un uomo da aiutare a salvare qualche anima. A costo di perdere la propria, forse, ma a questo punto cosa importa?
Marco Romagna