Avevamo lasciato la consuetudine hitchcockiana di M. Night Shyamalan di apparire in ogni suo film sulla spiaggia/cinema di Old, nel piccolo ruolo dell’autista pronto a rivelarsi il vero e proprio “regista” che attraverso le videocamere di sicurezza (proprio come quelle a circuito chiuso che non a caso già controllava in Split) vegliava sulle contrazioni, intrinsecamente cinematografiche, del tempo accelerato in cui racchiudere e raccontare in poche ore l’intero scorrere di una vita. Tanto che non stupisce ritrovarlo, nel suo nuovo Bussano alla porta, come televenditore di friggitrici ad aria, magnificamente ironico e surreale nel suo apparire in televisione subito prima che le edizioni straordinarie dei telegiornali lo interrompano per dare notizia dei violenti tsunami che – come prima calamità di introduzione all’apocalisse, o forse come semplice coincidenza, o ancora come complotto preregistrato da mandare in onda – stanno iniziando a colpire le coste del pianeta. Un piccolo ruolo profondamente simbolico, per l’ennesimo personaggio con cui il sempre più teorico autore si autoritaglia il nuovo cameo con cui “lanciare” ancora una volta le acute e profonde riflessioni sul mezzo che ama nascondere sotto la superficie e fra le pieghe del genere, come a fornire ancora una volta una chiave di decrittazione di tutte le sue opere. Una piccola apparizione che, ben al di là del “gioco” con cui “firmare” i propri film, segna il momento in cui le vicende tratte dalle apocalittiche pagine di La casa alla fine del mondo di Paul Trambley, senza perdere un solo briciolo della loro suspense thriller/horror e della loro cruda durezza, diventano definitivamente un nuovo studio su forme, linguaggi e fisicità (non certo casuale in tal senso la scelta di girare in 35mm) del cinema. Per un film sul punto di vista (magari decentrato ai bordi di uno schermo panoramico con cui, come già il Tarantino western/kammerspiel di The Hateful Eight, fotografare in 2,39:1 gli interni, oppure da ricostruire e costantemente ripensare con i ritorni al passato dei flashback, o ancora direttamente lasciato fuori dal campo, ma non dall’immaginazione dello spettatore, come i momenti più smaccatamente gore dei sacrifici) e sull’immaginario come lucida e consapevole visione (quindi diurna, slegata dal sogno). Un film sulle immagini come narrazione, e sulla sospensione dell’incredulità come vero e proprio atto di Fede. Un film sulla verità di una luce che pulsa nel buio a cui deliberatamente scegliere di credere, o a cui progressivamente non poter più fare a meno di credere. A costo di diventare sempre più infedele nell’adattamento del romanzo di partenza, di scartare come in un plot twist verso altri significati, verso altri immaginari, verso altre visioni di uguali e opposte conclusioni: il caso, la Fede (cristiana, nelle immagini, ma anche come concetto più ampio e generale), la manipolazione, la necessità di convincere, la predestinazione, la scelta, la fretta, la catastrofe. E poi la possibilità, l’obbligo, il ribaltamento (di un’intera cinematografia, ripercorsa fra padri, inondazioni, incidenti aerei, piccole comunità e case assediate) attraverso un inedito non-ribaltamento, attraverso la consapevole frustrazione delle aspettative di un film che esprime chiaramente la necessità di osservare (e credere a) tutti i diversi possibili punti di vista per poter finalmente cogliere la verità nella sua interezza. Compresa quella non dimostrabile, metafisica, spirituale, che chiede di ridiscutere l’intera propria esistenza, ogni più intima convinzione, forse perfino i sentimenti. Del resto in Shyamalan l’elemento inspiegabile va sempre preso come verità di fatto. Non serve cercare di capirne il perché, semplicemente è così. Che siano alieni in un campo di grano o superpoteri che non ci si era mai accorti di avere, che sia una ninfa acquatica nella piscina di un condominio o che sia una spiaggia stregata in cui si invecchia nel giro di poche ore. Anche qui, per sapere se i bizzarri assalitori della casa, inquietanti e risoluti quanto in realtà gentili e premurosi, siano dei folli violenti, dei fanatici religiosi convinti di un qualcosa di insensato o realmente i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse con un messaggio da consegnare alla famiglia, è necessario passare dal rifiuto al dubbio, dal dubbio alla Fede, dalla Fede all’accettazione del mistero e dell’ignoto. È necessario sospendere l’incredulità e ascoltarli, ammettere che l’impossibile possa essere per una volta possibile, sentire vacillare ogni certezza e semplicemente abbandonarsi all’evidenza (o all’impossibilità di evidenza) di ciò che raccontano, fra piaghe sempre meno razionalizzabili che continuano ad abbattersi sulla Terra e un tempo che sembra sempre più tiranno. È per questo che Shyamalan, nella sua comparsata, offre apertamente agli spettatori un’illusione, in questo caso gastronomica, con quel macchinario che in realtà non frigge, ma come un piccolo forno ventilato riesce a cucinare con una panatura analoga a quella dell’olio bollente, molto simile, tanto da crederci al punto di chiamarlo convintamente friggitrice. La medesima illusione, la medesima verità e al contempo menzogna, che è potere intrinseco delle immagini, visibili e quindi in qualche modo inequivocabili proprio come è inequivocabile la fragranza di una patatina (non) fritta ad aria, e allo stesso modo sempre potenzialmente fasulle, costruite, ingannevoli, tanto nel cinema quanto (si veda in tal senso il capitale France di Bruno Dumont) in un giornalismo televisivo che ne ricalca forme, finzioni, messinscene e manipolazioni. È impossibile discernere il vero dal falso: si può solo sospettare, si può solo credere a rischio di abboccare a una bugia, si può solo dubitare a rischio di rifiutare la pura verità. Salvo magari doverci poi fare i conti, con la verità. Con un diploma, con una fotografia, con un documento, con un lutto nel cuore, con un profondo senso di colpa. Ma anche con una nuova consapevolezza, con un nuovo eroismo, con un vero futuro.
Del resto, anche senza dolo, le immagini possono essere semplicemente fraintese, proprio come quelle che, nel finale tanto teorico quanto politico di Glass, giravano liberamente di cellulare in cellulare a mostrare quello che non si sarebbe mai potuto solo raccontare, e a sancire il paradosso di una società talmente alla ricerca di supereroi (o per usare un termine più in voga “uomini forti” a cui affidarsi) da non rendersi nemmeno conto di esultare per la vittoria del Male sul Bene, per la piena e totale riuscita di un piano criminale lungo un’intera trilogia. Ma non divaghiamo troppo, restiamo su Bussano alla porta, in cui la vis politica è ancora più intrinseca, e deriva direttamente dal romanzo di Trambley che già immaginava la coppia omogenitoriale con adorata figlia adottiva, e già esprimeva più di un dubbio sul fatto che l’aggressione da loro subita potesse avere origine omofoba. Una famiglia che già più volte in passato aveva dovuto affrontare il pregiudizio, le prevaricazioni, la violenza, i falsi sorrisi, dai silenzi imbarazzati dei genitori di uno dei due alla necessità di mentire sull’identità del compagno al momento di adottare la piccola in ospedale, da una bottiglia di birra rotta in testa all’acquisto di una pistola con cui mai e poi mai, e nemmeno adesso sotto minaccia, si è avuta l’intenzione di uccidere. Eppure «non avevamo idea che foste una coppia omosessuale», giurano in coro i quattro assalitori a Andrew ed Eric, mentre chiedono loro di scegliere di sacrificare uno dei tre come unica via per salvare il mondo dall’Apocalisse semplicemente perché la famiglia prescelta per farlo, sulla quale si sono ritrovate a convergere le visioni di quattro totali sconosciuti – un allenatore di bambini, un’infermiera, una madre sola e un ex galeotto ormai redento – giunti insieme ad avvertirli, a cercare di convincerli della necessità del sacrificio, a mostrare loro in diretta le conseguenze – le inondazioni, una pandemia pediatrica, il continuo schiantarsi a terra di voli di linea – delle loro indecisioni. Quello che avevano visto e disegnato, all’ora esatta in cui se lo aspettavano, conoscendo già parola per parola le frasi degli anchormen televisivi. Si tratta di delirio collettivo o delle medesime visioni? Di pazzi o di profeti? Di caso o di Fede? Di trappola o di salvezza? Bisogna credere o non credere? Bisogna scegliere la propria famiglia o tutto il resto del mondo? E quel piccolo dubbio che inizia a farsi largo in Eric è frutto della sua commozione cerebrale o è l’emergere di una lucidità che prima o poi illuminerà anche Andrew, che gli farà accettare l’implausibile (del cinema)? Già l’inquadratura iniziale, con i cambi di fuoco sui fili d’erba fino alla cavalletta che la piccola Wen raccoglierà e classificherà insieme alle altre nel barattolo, gioca sulle apparenze, su quello che sembra e su quello che è, sulla capacità di creare tensione sul dubbio irrisolto, e al contempo sulla richiesta che diventerà poi esplicita di credere all’impossibile che illumina lo schermo come se fosse reale. Il resto è un lento slegarsi per una breve fuga, sono i tagli nelle gomme ormai a terra, è una colluttazione, è il respiro mozzato di una finestra rotta e di una tenda che non si sa ancora se copra una doccia vuota o l’ennesima minaccia. Fino a un cappuccio bianco destinato a diventare rosso – «Una parte dell’umanità è stata giudicata» – e a un occhio che diventa improvvisamente lucido. Una regia che è puro cinema, attraverso la quale riflettere sul senso di un cinema che Shyamalan ripercorre dicendo sempre più apertamente di crederci fino in fondo, dai titoli di testa sui disegni atroci degli assalitori che in qualche modo ricordano il Fincher di Se7en al Miyazaki di Kiki – Consegne a domicilio che Wen dichiara essere il suo film preferito, fino alle tematiche ricorrenti nell’immaginario del regista di origine indiana (i quattro invasori che rappresentano le caratteristiche umane come i quattro elementi già de L’ultimo dominatore dell’aria, l’epidemia di E venne il giorno, il destino di Unbreakeable, la morte de Il sesto senso, l’imposizione con la paura di The Village, ma anche l’ennesima tavola calda sperduta in Pennsylvania, lo spazio chiuso della casa di campagna assediata, e non certo in ultimo la famiglia patriarcale e l’acqua di Signs, a cui Bussano alla porta si avvicina quasi come un ideale controcampo, o forse un ribaltamento) che si rincorrono come indizi disseminati lungo la narrazione. Passando per le forme del genere, per l’inquietudine di un’inquadratura sghemba, per il brivido di un movimento di macchina, per il sapiente utilizzo delle musiche e dei rumori, per un campo e controcampo in plongée e controplongée che sin dal primo dialogo fra la minuscola Wen e il gigantesco Leonard magnificamente interpretato dall’ex wrestler Dave Bautista marcano la distanza insanabile fra due punti di vista troppo diversi. Fra quello che si vede e quello che si immagina, fra quello che si intuisce e quello che si sa, o forse fra quello che si sente e quello a cui serve necessariamente credere perché non si può spiegare, non si può capire, non si può razionalizzare. Ci si può solo abbandonare, accettandone il mistero per come è. È il cinema stesso che continua a chiedere di farlo, proprio come leggenda vuole che nelle sue primissime apparizioni di fine Ottocento sia stato in grado di far credere a qualcuno che da quell’enorme lenzuolo illuminato da un fascio di luce traballante in bianco e nero potesse davvero sbucare da un momento all’altro un treno in corsa. Manoj Night Shyamalan questo lo sa perfettamente, e non perde occasione per ricordarlo nel suo ennesimo, straordinario, esaltante film. Che dai più verrà probabilmente ancora una volta sottovalutato, capito poco, magari bistrattato, quando invece basterebbe concentrarsi su quello che dice e su come lo dice per rendersi conto, ancora una volta, di avere a che fare con uno degli autori più importanti, brillanti e consapevoli della contemporaneità.
Marco Romagna