KNIVES OUT (2019), di Rian Johnson
Quello di Knives Out è un meccanismo perfetto, vicino al geniale. Parte tutto dalla necessità di lavorare sul giallo, sul “whodunit”, nel mondo di Agatha Christie e Sir Arthur Conan Doyle, e tra Poirot e Sherlock Holmes ecco che arriva Benoît Blanc. Un investigatore definitivo, quasi olistico, un Daniel Craig dall’accento inglese eccessivo che parla per metafore, e ai cui piedi la verità e la risoluzione giungono naturalmente, senza che lui abbia battuto ciglio – o quasi. Rian Johnson torna alla regia dopo Gli ultimi Jedi, un mezzo disastro per il franchise di Star Wars, non tanto per il botteghino quanto per il responso dei fan della saga di Lucas, che hanno proprio incolpato il regista di aver cambiato i piani e aver ‘tradito’ l’etica e l’estetica della mitologia di Guerre Stellari; e Johnson, regista televisivo (dietro alcuni tra i migliori episodi di Breaking Bad), di videoclip e di film di genere, torna non più distruggendo una tradizione, per quanto abbia poco senso incolpare unicamente lui per la situazione Lucasfilms/Disney/fandom, ma cercando di riportare gloria, densità e intrattenimento in un’altra. Non senza un pizzico di autoironia: nell’inevitabile momento di rivelazione finale, tutto è incredibilmente impostato, lucido, costruito, il monologo di Blanc si trova ad avere ritmi di retorica anti-cinematografici, anti-realistici, bensì letterari, al massimo teatrali. La struttura del racconto e dei personaggi però giustifica e condanna con giocosità il tutto – la vittima è uno scrittore di gialli, e dunque tutti conoscono le logiche della scatola-genere in cui sono ingabbiato, ognuno cerca di rincorrere l’altro in un tipo di costruzione che è effettivamente quella del film, ma non per i motivi apparenti e abituali dell’interno del genere. Uno degli investigatori è anche un fan dell’opera della vittima, ed è stimolato con fare adolescenziale dalle dinamiche della storia, mentre la maggior parte degli altri personaggi sono insofferenti, stanchi, parte di un marchingegno a cui non vorrebbero appartenere. C’è chi è vittima e c’è chi è testimone, e l’intrigo è talmente complesso che ci si sente sempre, fino alla soluzione finale, come se fossimo sperduti, immobilizzati e tesi, privi di mezzi per comprendere la totalità degli eventi che il microcosmo familiare e architettonico di casa Thrombey può includere. Ma, in verità, è anche questo un gioco. È tutto costruito con equilibrio per rendere la vita dello spettatore e l’esperienza intriganti e difficili, come se tutto fosse un mistero troppo grande per essere compreso, ma ogni ingranaggio è perfettamente oliato per dare un risultato convincente, logico. Che senza spiegone non sarebbe raggiungibile, ma l’autoironia e il plasticismo volontario del mondo del film ne giustificano la presenza.
Tra plot twist (alcuni abbastanza telefonati, altri meno) e un cast stellare, Knives Out è un film di cui si potrebbe dire che non si sente alcun bisogno. La sua umanità e la sua necessità non sono dettate minimamente dal contenuto, però si può decretare qualcosa semmai dal panorama cinematografico in cui viviamo. In cui è tutto troppo plastico o troppo reale, troppo serioso o troppo ironico. Sembra sempre di più che tra i fini del cinema vi sia quello di progredire l’immaginario di una visione collettiva, quella di una serie di archetipi che, ripercuotendosi attraverso una rappresentazione audiovisiva canonizzata (ma ancora sradicabile dalle fondamenta, e l’ideale sarebbe tentare di dimostrarlo il più spesso possibile…), possano costituire in fine una sorta di catalogo emotivo che ogni spettatore può diversificare, personalizzare, vivere parallelamente rispetto a ciò che è la vita reale, fatta a sua volta, se lo si desidera, di simboli, audiovisuali quanto tattili e sensoriali in altre dimensioni e possibilità. Almeno, per gli appassionati, perché agli spettatori occasionali possiamo lasciare senza problemi l’idea, non necessariamente falsa, che il cinema sia intrattenimento, e che è possibile dichiarare e dare voce a una scelta nell’immaginare quale intrattenimento sia il migliore di persona in persona. Knives Out è interessante nella dimensione in cui, sì, è cinema di intrattenimento, «populista», e non si propone di essere anche «arte di alto livello» (citiamo la recente dichiarazione di Greta Gerwig a Palm Springs su come Tarantino affronta il fare cinema), ma ha in sé il germe della riproposizione degli archetipi, appunto, nel riportare in auge il pensiero e le logiche di un genere. Non lo fa sovrappensiero come molti altri film né con le ambizioni smisurate di un luna park postmoderno come lo Sherlock della BBC o quello dei film di Guy Ritchie, ma lo fa con la perizia di scrittura (…dalla penna di Rian Johnson stesso, il che non è scontato) del grande romanzo, e una consapevolezza citazionista mai eccessiva, sempre corretta, sensata. Nel recente capolavoro di Schrader, First Reformed, viene affermato che «ogni atto di preservazione è un atto di creazione, ogni cosa preservata rinnova la creazione, è così che partecipiamo nella creazione», e considerato che First Reformed tenta di preservare, in maniera diretta, alcuni elementi concettuali e visivi del cinema “trascendentale” europeo, la frase diventa sensata riferita anche al cinema e alle forme a cui si può ispirare, in cui può trovare le radici. Knives Out, dunque, fortifica l’essenza del giallo-film americano, hollywoodiano, con più credibilità e convinzione rispetto ai recenti adattamenti di Kenneth Branagh, e in ciò, nella sua strana originalità priva di originalità, è un gesto di creazione, è un atto umano e culturale. Ed è un grande marchingegno di intrattenimento.
L’unico vero rammarico che possiamo davvero riscontrare nel film sta in realtà nell’uso dell’incredibile cast che Johnson aveva a disposizione. Metà dei personaggi principali, inclusi quelli interpretati da Michael Shannon e Jamie Lee Curtis (figure con grandi potenzialità e attori dal volto e dall’interpretazione sempre interessante), hanno una tale ininfluenza nell’intreccio che la metà delle loro apparizioni sembra solo un modo per giustificare la loro presenza nel film. Per spiegare meglio: ci sono momenti in cui i personaggi principali sembrano fare dei cameo, scene relativamente inutili alla struttura totale (il che è in realtà grave, per quanto relativamente raro, in un mondo costruito così nel dettaglio), giusto per confermare la loro bravura e la loro presenza, con manierismo. Diventano maschere. Non è il caso di Craig e Plummer, che sono incredibili, né della stella emergente Lakeith Stanfield (v. Atlanta, Uncut Gems) o di Ana de Armas e Chris Evans, che escono dai loro ruoli soliti e regalano forse le loro migliori interpretazioni, ma lo è per quasi tutti gli altri. Tranne Frank Oz, che è sempre un piacere intravedere. Insomma, Knives Out non è la classica parodia burlesca à la Invito a cena con delitto né un tributo senza senno né scopo, bensì la perfetta sintesi, o simbiosi, tra le possibilità del genere in questo panorama così classicamente confuso, alla ricerca di cose a cui aggrapparsi, vita da raccontare. È difficile decidere di voler raccontare qualcosa, e nell’ambito della produzione di massa hollywoodiana tutto sembra facile, tutto sembra riproducibile all’infinito e mai noioso, ma non è così. Cerchiamo di stimare, quindi, Rian Johnson, che riesce qui a fare qualcosa di libero, almeno apparentemente, un film semplice, ma sincero, nella sua profonda, dichiarata falsità.
Nicola Settis