KILL IT AND LEAVE THIS TOWN (2020), di Mariusz Wilczyński
Kill It and Leave This Town è una pugnalata al cuore, e allo stesso tempo una ferita da cui far trasparire un po’ di luce. Probabilmente a questo non ci sarebbe nulla da aggiungere, anzi, non c’è. La fuga da una perdita, da più perdite, porta Mariusz a riscrivere una storia, la propria, costruendo una landa di ricordi ed emozioni dove il tempo è sospeso e incapsulato. In quello spazio ci sono tutti, assieme, avvicinati dal potere dell’immaginazione. Una matita li definisce solo abbozzati, personaggi e anime a confronto, fluidi e astratti. Attorno a loro il piccolo Mariusz respira e galleggia, apre gli occhi e inizia a guadare il passaggio della vita e la sua esposizione all’inafferabile. Ma ogni incantesimo, pure quello che nasce dalla resistenza al dolore, si spezza nella caducità di un’immaginifica giovinezza mai eterna. Così tutte quelle figure di un paesaggio inconscio lo accompagneranno al ritorno verso alla realtà. Un nuovo contatto con un reale filtrato dall’esperienza, quella di un’odissea animata che vede lo stesso protagonista/autore impegnato per anni, sempre a rischio del naufragio. La sottile linea che divide lo spazio concettuale della struttura dell’epifania esistenziale è però definita da un vorticoso tratto sghembo e unico, pieno di epica onirica e terribile fragilità. Il travagliato esordio di Mariusz Wilczyński, presentato fra gli Encounters della Berlinale 2020, ha la leggerezza di una lacrima di stordente bellezza e proprio come una lacrima rimane sospeso, inafferrabile e sconvolgente.
Low-fi e grezzo, espressionista e neo-oggettivo, Kill It and Leave This Town è un simbolico ed enorme atto di resistenza nei confronti del disastro. È la visualizzazione di un decennio di ansie affiorate sul confine (inesistente) tra la memoria e il sogno, densamente surreale in una narrazione frastagliata sempre verso il vuoto e l’ossessione dell’oblio. Nella Lodz industriale di regime di metà anni ’70, pennacchi di fumo e insegne al neon, figure stilizzate a alienate camminano per la città. Un microcosmo sconnesso e disperato in cui Mariusz si muove come figura gargantuesca a ritrovare i cocci della sua esistenza – strazianti e viscerali i quadri dedicati alla scomparsa della madre – nella sua più pura forma ontologica (emblematica e struggente è tutta la sequenza marina, l’epifania della realtà che si schiude attorno al protagonista). Volti che si rincorrono attorno all’inquadratura non trovando dimensioni in cui apparire segnano Mariusz nella sua continua lotta di liberazione dell’anima dal peso stesso dell’essere. Un’esperienza acida nel buio più radicale, che attraverso i suoi mirabili punti luce trova la possibilità di essere vista. Proprio così sono gli incubi e le nevrosi, proprio così l’inchiostro li condensa, quasi come una colata di magma che pian piano si solidifica su una carta sempre più raggrumata, con transizioni improvvise e laceranti. Scarabocchi dell’anima pulsante che sconvolgono ogni struttura, nella flagranza di un’intensità unica e nella densità di senso che solo una grande sofferenza può generare. Segni di vita, un qualcosa che germoglia improvvisamente sull’orizzonte del nulla.
Wilczyński si avvicina a Grosz e a Dix, e forse anche a Svankmajer, liberandosi però da tutto e tutti nella disperata ricerca di se stesso. Con gli straordinari contrappunti musicali di Tadeusz Nalepa (e molti interventi vocali di giganti della cultura polacca), definisce gli oggetti donando loro una vivida espressività sorprendente e lisergica. Un oggetto misterioso e frammentato, pieno di brutalità nella sua bellezza più pura, allucinato nella sua devastante lucidità. Kill It and Leave This Town si è preso una buona parte della vita di Mariusz, come la vita si è presa i suoi genitori, il suo migliore amico. Poterli disegnare non diventa così solo una forma plastica di evocazione, ma un modo per ristrutturare il tempo attorno a loro, poterli salutare e così donar loro un altra forma di vita poetica e inconscia. Un cinema che salva e custodisce, che dialoga liberamente con il sogno, che mantiene vivi i brandelli confusi delle anime che non hanno più contatto sulla terra attraverso una sfida continua con l’idea stessa della morte. Immagine, anima, azione; tutto il resto non ha valore alcuno. La legge universale così scorre, si nasconde in un disegno, eclissandosi nelle inquietudini solitarie di mani tremanti al battito del cuore. Resta solo il senso della nuda vita, della paura che essa – quella di coloro che ti sono stati accanto – si possa perdere inesorabilmente. La lotta e l’atto, il galleggiare nell’oceano del tempo, il poter respirare profondamente prima di tornare sott’acqua. L’estasi e l’amore, il desiderio e la speranza, la malinconia e il futuro, come vita e morte fra le onde. «Il mio film parla di noi, così come eravamo. Le persone che non siamo più, ma che vorremmo davvero essere di nuovo», commenta il suo film lo stesso Wilczyński. Ecco perché quel noi diventa un pronome cosmico, assoluto. Non c’è nulla da aggiungere: la ferita è lì che pulsa, cosparsa di luce.
Erik Negro