KHAMSIN (2019), di Grégoire Couvert e Grégoire Orio

Soffia da sud-sud est il Khamsin, vento che dalle dune del Sahara si spinge caldo e irrefrenabile fino al vicino oriente della penisola Araba. Un vento di terra, nerboruto, capace di spingersi furioso fino a 140 chilometri orari sospingendo le nubi e le correnti, sollevando intere tempeste di sabbia, modificando i paesaggi desertici e ogni volta rivoluzionando la loro morfologia. Un vento che è perfetta metafora di un qualcosa che entra, si infiltra, sconvolge, modifica, piega. Riplasma, forme, idee e linguaggi. Riplasma la musica, per cercare attraverso l’arte, l’espressione e il (nuovo) senso di ogni accordo di scuotere le fondamenta di una società da far ripartire, e di certo riplasma, fino a diventarne il titolo, un film che inizialmente sarebbe dovuto essere tutt’altro. Perché non si può fermare il vento, si può solo constatare, assecondare, e a volte aiutarlo a sospingere chi combatte con il noise dei suoi muri sonori, con le sue sconfinate progressioni minimali e con i suoi impasti prolungati di suono le giuste battaglie. Al momento delle prime riprese, stando alle dichiarazioni dei videoartisti francesi Grégoire Couvert e Grégoire Orio, Khamsin sarebbe dovuto essere semplicemente un documentario sulla scena musicale libanese, da realizzare come una sorta di backstage da affiancare alla produzione di video musicali, nel frattempo girati e montati sia in co-regia sia alternativamente in solitaria, per lo straordinario gruppo post-rock degli Oiseaux-Tempête. Ma il progetto degli Oiseaux-Tempête, letteralmente “Uccelli-Tempesta”, artisti di varia formazione tornati in Libano per tentare di farlo vibrare coi fischi del white noise nel suo sempre più forsennato bisogno di lotta di classe e già colonna sonora del Tlamess di Ala Eddine Slim, è troppo apertamente e intelligentemente politico per fermarsi alla superficie, per non lasciare entrare con tutta la sua potenza il soffio del Khamsin, per non decidere ben presto di incominciare a battere altre e contingenti strade, trasformando i momenti di relax e di discorsi liberi intorno al tavolo dei componenti della band libanese, filmati forse quasi per caso, nell’unica e multiforme voce narrante, poli(sin)fonica proprio come le forme sospese fra noise, free jazz, elettronica e linee melodiche etniche tipiche del gruppo musicale, nel principale cuore del film presentato nel concorso Internazionale di TFFdoc del 37mo Torino Film Festival, nel filo rosso che unisce i frammenti di un’esperienza collettiva e di una memoria condivisa.

È però proprio nelle analisi sociopolitiche che paradossalmente Khamsin, tanto vale dirlo subito, spreca parte delle sue potenzialità, finendo, nella volontà quasi compilativa di affrontare o per lo meno elencare tutte le storture di un Paese profondamente caotico e per molti versi tribale, per semplificare situazioni storiche, politiche ed economiche che sono ben più complesse e stratificate di come vengono poste dalle riflessioni militanti dei musicisti. Eppure non è detto che questo sia necessariamente un problema: a esprimere le proprie valutazioni sono appunto musicisti, non statisti, non uomini di potere preposti ad analizzare e realmente risolvere le situazioni. Sono uomini di spettacolo, sufficientemente noti per quanto in circuiti underground, che perfettamente consci di essere dalla parte della ragione vogliono parlare al cuore e alla pancia di una nazione per cercare di smuoverla dalla sua passiva accettazione. E quindi ben venga qualche banalizzazione, ben venga qualche pennellata di retorica, ben venga qualche superficialità demagogica nell’esplicitare le istanze del proprio progetto artistico/politico/concettuale, se serve a essere di spinta, se serve a indicare la giusta direzione, se serve a far emergere la voce, la musica e soprattutto la dignità di un popolo. Perché «ciò che unisce i popoli sono la terra e i costumi», e non una riga tirata tutto sommato di recente su una carta geografica a creare una zona cuscinetto di convivenze forzate e di obbligate separazioni, non una divisione insensata in più città divise di quelli che, in un luogo di Storia e cultura millenaria all’origine della civiltà, sono sempre stati i medesimi territori, né tanto meno un impianto statale corrotto fino al midollo, che nel «deserto nietzchiano rimasto dopo la guerra civile» si presenta come un regime forse ancora peggiore di quelli con un capo singolo e riconoscibile, con la sua schiera di fazioni e partiti politici di una classe politica disastrosa che schiaccia il popolo e che non gli riconosce alcun diritto. Spesso nemmeno alla più basilare igiene, figuriamoci al diritto di esprimersi e di manifestare il proprio dissenso. Ben al di là dei recenti e gravissimi sconfinamenti del conflitto siriano nel territorio, è sin dagli anni Quaranta della sua forzata formazione che il Libano si presenta come uno dei Paesi, forse mai davvero nazione, più incerti e martoriati dell’intero scacchiere internazionale, unito eppure diviso nelle sue diciotto confessioni religiose a rappresentare quasi ogni possibile sfumatura di credo.

Un Paese passato per una guerra civile, per una sanguinosa occupazione siriana e per un aperto conflitto fra gli Hezbollah e Israele, un Paese di Sciiti e Sunniti, un Paese di cattolici e di greco-ortodossi, un Paese di cristiani e di musulmani non solo dell’OLP. Un Paese violento dove ancora vige la legge del più forte, e dove chi si ritrova a essere più debole preferisce dimenticare i soprusi subiti fino a subirli nuovamente che rimboccarsi le maniche e ricominciare a combattere per migliorare la situazione. Mentre gli Oiseaux-Tempête, così come i The Bunny Tylers incontrati dai registi lungo il cammino in un’altrettanto straordinaria performance, e così come la poesie di Mahmoud Darwich che inframezzano il racconto, le prove, le immagini della città e le esibizioni che compongono e fanno letteralmente volare l’ora di Khamsin, vogliono esattamente al contrario ricordare, e proprio dalla memoria resistere e combattere. Aprire la finestra per liberare con la forza della musica un popolo intrappolato come un colombo in una stanza, incapace di volare via da un Paese profondamente complesso, già maceria rimasta dopo una serie pressoché infinita di situazioni complesse e di fatto irrisolte. Un Paese al quale magari legarsi sentimentalmente nella distanza, nella sentirlo mancare, nel rimpiangerlo, intelligentemente (per quanto forse con qualche sporadica patinatura) fotografato da Couvert e Orio in un low-fi in miniDV che, al contempo, riporta anche nelle immagini il rumore della musica, restituisce la “sporcizia” e i contorni incerti di Beirut e rende in un certo modo fisico, con le imperfezioni del nastro, anche il digitale. Con immagini granulose e sfuggenti, mosse, rapide, sofferte come il caos del Libano, rumorose e astratte come le stasi e le progressioni della musica. Mentre ogni singola nota prolungata a creare atmosfera degli Oiseaux-Tempête, segno della lotta dell’uomo contro il deserto, nient’altro è che una ben precisa presa di coscienza politica, un messaggio, il mattone di un muro sonoro da opporre agli orrori del quotidiano. È una chiamata alla coscienza, alla resistenza, all’identità: suonare (e quindi combattere) per essere, per ricordare, per capire, per vivere. Con sonorità ipnotiche e catartiche vicine a quelli dei Set Fire to Flames e ancor di più a quelle dei Godspeed you! black Emperor, con cui oltre all’interpretazione sinfonica e divisa in movimenti del post-rock il gruppo libanese condivide anche la chiara e militante carica politica. Quattro chitarre, un contrabbasso, un microkorg, un violino, le percussioni, la batteria, a volte una voce, e infiniti campionamenti che diventano puro segno, linguaggio, contestualizzazione, messaggio di rabbia e devastazione. A riportare ai bombardamenti, all’oscurità, al dolore, alla disperazione, al lento essere esaltati e al contempo consumati da una città. Ai fori dei proiettili ancora conficcati nei muri, ma anche alla consapevolezza di essere ancora in vita, al coraggio di ricordare fra la paura e le ire di chi vive dimenticando. Sognando di costruire insieme, attraverso il linguaggio, una società più giusta, perché anche il presente è già passato ma il futuro è ancora tutto da scrivere. Come uno stormo di uccelli, preferibilmente “in tempesta”, finalmente in volo nell’immensità del cielo di Beirut.

Marco Romagna