7 Settembre 2023 -

KEN JACOBS – FROM ORCHARD STREET TO THE MUSEUM OF MODERN ART (2023)
di Fred Riedel

«Films picture the world. My images of the world are impossible so you have to be alert. […] This is ideology. I want to bring people to the point of questioning what they see. You have the obligation to protect your individual perception. […] I don’t want the audience to believe, I want them to be entertained by illusions that they recognize as illusions»
Ken Jacobs

In fondo, chi è (o meglio cosa ancora oggi rappresenta) una figura come quella di Ken Jacobs? Uno dei più seminali maghi del cinema dai tempi di Méliès, un rivoluzionario e innovatore che per sei decenni ha dilatato la capacità dell’immagine proiettata per abilitare nuovi modi di vedere, uno dei principali artisti statunitensi del secondo dopoguerra. Queste sono le prime risposte semplificate e possibili, quelle che cerca (in maniera più espansa) Fred Riedel nel suo Ken Jacobs – From Orchard Street to the Museum of Modern Art, presentato con il suo titolo più che mai programmatico fra i documentari sul cinema di VeneziaClassici all’80ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Un viaggio sublime, e rigorosamente low-fi, attraverso uno degli ultimi giganti della sperimentazione al cinema (e non solo) che hanno segnato come pochi l’undeground (o meglio l’avanguardia) nel periodo in cui le immagini si sono davvero spinte oltre la rappresentazione come mai più sarebbe successo. Seduto accanto alla fidatissima moglie e collaboratrice Flo, il nostro Ken dialoga riflettendo su frammenti di film e performance che dalla finestra di Orchard Street – figlio di un’infanzia assai complessa, di origini ebraiche e famiglia divisa, e di una New York forse inimitabile come quella di metà ’50 – giungono fino al cuore dell’universo. Dalle prime collaborazioni folli e surrealiste con Jack Smith e altri (emerge il rapporto fondamentale con Jonas Mekas, quello altrettanto importante con i fratelli Kuchar e gli incontri non facili con Stan Brakhage) passando per le successive opere formaliste seminali e rivoluzionarie (fino a giungere a concetti e invenzioni come la rappresentazione di Nervous System e del Cyclopean 3D). Quello che emerge, a un primo sguardo, è il contributo di Jacobs a questo cinema, ma anche alla sua cultura come artista, insegnante e organizzatore di quella che fu una grande utopia collettiva del guardare il mondo. Quello che poi rimane nel suo archivio provvisorio e infinito che, nel finale, viene trasportato all’interno del MoMa; una galassia di immagini ed esperimenti che rappresentano la pura ricerca di quel bimbo che dal suo appartamento guardava con curiosità il creato in tutte le sue forme.

Le opere di Jacobs sono piene di fantasmi sin dallo loro origini, quando erano composte da immagini ancora essenzialmente pittoriche, e così li rincorrono fino all’oggi. Basti pensare a Smith e Fleischner saltellare nella strade dell’East Side animate a inizio secolo dagli immigrati ebrei, a quell’estetica infiammata dal risentimento verso l’establishment – nella politica di quei tempi, nel mondo dell’arte e persino nel cinema marginale – emerso e modellato dalla serie di film formalmente così originali ed eccentrici prima del più organico e strutturale Tom, Tom, the Piper’s Son (1969-1971), emblema primigenio di decostruzione e opera spartiacque per tutto l’avantgarde. Visioni continue tra squarci d’ombre e multipli schermi, ipotesi e tentativi, aperture e sgretolamenti, resurrezioni e incidenti. Il cinema di Jacobs è un mutante continuo e pulsante, apparentemente unico ma ben rappresentato dalla radicalità di quel periodo irripetibile. Nel solco di una ricerca nella domanda della forma, nella misura in cui ne rasenta un’assenza sfidando l’impossibilità. È per questo che Jacobs, instancabile nel suo ininterrotto movimento di attraversamento dell’immagine, è sempre rimasto tra i più influenti in una generazione di insegnanti di estetica del cinema, anche nel suo concentrarsi su apparati mobili di proiezione tridimensionale, tra abbaglianti meraviglie nascoste in frammenti d’archivio, estraendo artigianalmente intricate variazioni su movimenti illusori e profondità pittoriche. Quello a cui giunge è una nuova concezione di (para)cinema (seminale, in questo senso Star Spangled to Death, 2004) prima della sua conversione artistica su digitale. Le ultime ricerche del genio newyorkese sono così legate alla stereoscopia video e alla visualizzazione di un movimento interno all’immagine diventata “numerica” (la complessa serie degli Eternalism), una forma di rivitalizzazione e sdoppiamento di fotogrammi dispersi nel passato, nell’esperienza del rapporto tra superficie e profondità. Il motore di tutta la sua speculazione rimane in fondo l’illusione della sequenzialità che Jacobs ricerca sin dagli anni Settanta (prima attraverso flicker e stop-motion analogici, ora attraverso processi digitali e ottici), da demiurgo visionario ed esploratore di una grammatica astratta, di ricostruzione e narrazione, del proprio frammento di realtà.

«The concern of this course of active filmmaking and reflective dialogue will be with cinema as instrument of thought, as a way certain thoughts or kind of thinking for the first time become possible, realizable, and certain experiences, unique to the capacity of cinema, available. The basic mechanics of filmmaking will be made cleer together with a sense of the infinite directions cinema can proceed from its simple, infinitely manipulable elements. Freedom will make things difficult. The supremely difficult task for each student as it remains for the accomplished artist is to work from necessity, to discover what is personally important and keep at it (it cells for brains, heart, courage, and luck – “the luck,” Stan Brakhage says, “that comes to those who work hard”)». In questo stralcio di una lezione del 1978 agli studenti di Boulder si trovano perfettamente gli elementi che Fred Riedel tenta di determinare nel suo bellissimo film. Nelle conversazioni tra Ken e Flo (meravigliosa e dolcissima lei che entra raramente nel dialogo ma sempre per assistere lui, con date e figure attraversate in questo lunghissimo viaggio) emerge più di una volta di come il cinema sia quella magica macchinazione delle idee con cui realizzare mondi partendo da elementi semplici e minimali. Testa, cuore e coraggio anzitutto. Una lunga riflessione su quest’asse di cinema come possibile dispositivo di potere o strumento di pensiero; nel primo caso con l’assoluta necessità costitutiva del fallimento da ciò che può essere definito il post-capitalismo (non solo a livello politico), nel secondo come fabbrica infinita che suscita pensieri, esitazioni, stimoli e rifiuto di ogni manierismo, perfezione e controllo a vantaggio della provvisorietà, dell’esperimento e dell’effimero. Tra gli ultimi reduci di quella stagione, Jacobs rimane a novant’anni uomo di entusiasmo contagioso, uomo di generosità e intuizione nel suo intendere l’avanguardia come una pratica che dall’esistenziale vira verso il sensoriale, uomo alla strenua ricerca di una visione attraverso i nostri sensi e gli strumenti che utilizziamo per nutrirli, negli inconsapevoli inganni della mente come dei corpi dell’esperienza percettiva. Ancora oggi ogni sua opera rappresenta il cambiamento del nostro punto di vista come una scelta di campo, politica quanto pittorica, nel credere all’intero cosmo come una grande camera oscura in cui “movimentare” immagini di piacere e stupore; quel grado di sublime dell’occhio e dello spirito che si rende conto del grande spettacolo del mondo e della potenza emotiva di poterlo osservare, e poi personalmente raccontare.

Erik Negro

“Ken Jacobs - From Orchard Street to the Museum of Modern Art” (2023)
98 min | Documentary | United States
Regista Fred Riedel
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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