3 Novembre 2017 -

KATI KATI (2016)
di Mbithi Masya

Una donna kenyota, Kaleche, si risveglia nel deserto, sola, sperduta, priva di memoria. Di fronte a lei, come un’oasi nel nulla, si apre il villaggio di Kati Kati, nel quale gli abitanti giocano, scherzano, si divertono in piscina e seguono le direttive di Thoma, carismatico leader triste. “Se sei qui, vuol dire che sei morta” è l’atroce e inaspettata risposta alla prima domanda di Kaleche, e a nulla servirà il suo tentativo di fuggire: Kati Kati è circondato da una barriera invisibile che trattiene le anime, non le lascia andare via fino a quando non sarà giunto il tempo, fino a quando non si libereranno dei propri conti lasciati in sospeso, fino a quando non saranno finalmente libere, senza più tare, senza più provvisorietà. Perché non è un luogo definitivo, Kati Kati, non è l’Inferno e non è il Paradiso. E forse non è nemmeno un “classico” Purgatorio, nel quale aspettare, soffrire e trovare la redenzione. È più che altro un luogo di sospensione, nel quale per liberarsi è necessario compiere gli esami di coscienza lasciati da parte in vita, è necessario ritrovare una madre e finalmente chiarirsi, è necessario riuscire ad ammettere una propria colpa, è necessario saper chiedere scusa, è necessario saper ritrovare se stessi, la propria memoria, i propri affetti. Ed è soprattutto necessario essere perdonati.
Non capita spesso di imbattersi in prodotti cinematografici provenienti dal Kenya, tanto meno in opere prime provenienti dal Kenya. E, più in generale nel cinema africano, non capita spesso di imbattersi in qualcosa di così tanto distante dall’etnografico e dallo stereotipo, nel quale persino la fotografia è slavata e virata al pastello per evitare le classiche assolate colorazioni. Kati Kati, esordio non privo di problemi ma senza dubbio da difendere di Mbithi Masya, è semplicemente un film d’autore che si interroga senza limiti culturali e con sguardo laico e rispettoso sul confine fra la vita e la morte, mettendo in scena un limbo nel quale il punto non è l’espiazione e forse nemmeno il pentimento, ma la semplice, quanto fondamentale, autocoscienza. L’ammissione, prima di tutto a se stessi, delle proprie colpe, letteralmente incarnate da un pallore crescente che, come un simbolo delle questioni ancora inaffrontate, inizia a invadere diverse parti del corpo dei protagonisti fino alla creazione di un loro vero e proprio doppio, bianco fantasma del passato che non può che riportare alla mente i recentissimi fasti lynchiani di Twin Peaks – The Return. Certo, Kati Kati ha anche palesi limiti, da una regia che finisce per appiattirsi senza particolari guizzi a una forzata struttura circolare che finisce quasi per contraddire, se non addirittura tradire, tutto l’alone di mistero ai confini fra il postapocalittico e il postmortem delle simbologie geografiche e corporali messe in scena, dal deserto al pallore, dal villaggio turistico all’intimo doppio/specchio/fantasma. Come pure, nella gestione emotiva della poetica e nelle tematiche, il film di Masya finisce per ricordare un po’ troppo, e in tono decisamente minore, il magnifico Still walking (2008) del nipponico Hirokazu Kore-eda, termine di paragone che sarebbe scomodo quasi per chiunque. Ma quelli di cui si macchia Kati Kati sono limiti cinematografici tutto sommato giustificabili, un po’ per la natura di opera prima, un po’ per la provenienza esotica del film. Limiti che, pur appesantendone la struttura, non riescono a intaccarne gli indubbi spunti di interesse. Né il cuore, gigantesco, del quale si mette al servizio.

Potrebbe venire da ogni parte del mondo, un film come Kati Kati, che si interroga su temi universali e comuni, pur con lievi differenze, in ogni cultura. Proviene, girato in co-produzione con la Germania per ovvi limiti cinematografici locali, proprio da Nairobi, fattivamente portato a termine, dagli attori ai tecnici fino alle maestranze, rigorosamente da autoctoni, uomini e donne di colore appassionati di un mezzo che, nel luogo nel quale sono nati e cresciuti, quasi non esiste. E proprio a Nairobi, e più in generale in Kenya, Kati Kati trova il suo ben preciso afflato politico. In una società ancora scossa dai probabili brogli elettorali di Mwai Kibaki, cui fece seguito l’invito alla violenza dell’oppositore Raila Odinga sfociato in una sostanziale guerra civile/etnica (non arrivata alle vette d’orrore rwandese degli anni Novanta, ma pur sempre fatta di colpi di machete, di innumerevoli dispersi e di oltre 1500 morti) deflagrata per due mesi a cavallo fra il 2007 e il 2008. In una cultura, a detta del regista, sempre pronta a giudicare gli altri ma ben poco disposta a mettersi di fronte a uno specchio per affrontare i propri personali esami di coscienza. In una realtà in cui la messa in scena di un Purgatorio/sospensione nel quale si viene costretti, fra la morte e la vita eterna, a tornare indietro riconsiderando scelte, memoria, errori e colpe, nient’altro è che una necessità ancestrale, una fondamentale tappa, ma anche e soprattutto un qualcosa che si potrebbe e dovrebbe già affrontare in vita, senza lasciare conti in sospeso. Perché l’uomo sbaglia in maniera anche tragica, è un essere fallibile, ma il suo sincero pentimento non può che preludere al perdono. Che a sua volta, in ogni cultura, è il principale quotidiano miracolo.
È semplice il messaggio di Kati Kati, eppure profondo. Della stessa profondità del viaggio/romanzo di ri-formazione di Kaleche. A Kati Kati, nel Purgatorio sospensivo di Masya, la morte è solo un passaggio, un principio e non una fine, e ogni anima ha bisogno di ritrovarsi, di riscoprirsi, per poter finalmente affrontare i propri fantasmi. Ed è nella mappatura della moltitudine di anime in pena che il film trova i suoi simboli più efficaci. C’è il laureando ancora con la toga e appassionato di basket morto suicida, tagliandosi le vene, alla costante ricerca di una madre con cui, forse per la prima volta, parlare apertamente; c’è un ex-prete, ora inquietante, tormentato e taciturno pittore, che ha lasciato morire bruciati i suoi parrocchiani durante le violenze elettorali del 2007, chiaro simbolo di entrambe le forze politiche che al tempo lanciarono il sasso e nascosero la mano preferendo rimbalzarsi a vicenda responsabilità e accuse; e poi c’è appunto Thoma, sorta di Virgilio per Kaleche, che la introduce a Kati Kati e la aiuta, la supporta e la bacia, fino a quando non si scoprirà essere il suo marito uxoricida, il cui conto in sospeso era proprio lei, la donna amata dalla quale implorare il perdono. Nulla di particolarmente imprevedibile, è vero, e nemmeno sempre gestito a dovere. Ma, da una cinematografia pressoché inesistente, sorprende sinceramente trovare un lavoro così audace e linguisticamente libero, così ambizioso e così lontano dai cliché del cinema del continente che rappresenta. E poi c’è un altro motivo per difendere a spada tratta Kati Kati, per cercare la metà piena del bicchiere, per volergli sinceramente bene nonostante la sua ripetitività e i suoi limiti. Sbirciando fra le note di regia, è possibile leggere come Kati Kati nasca da un trauma, da una lacrima, da un bisogno intimo, ideato subito dopo la morte – troppo giovane – di una cara amica di Mbithi Masya. È il modo, accorato, che il regista ha scelto per ricordarla, per mantenerla in vita ancora per un po’, per permetterle di trovare, finalmente, quella pace che in vita le è stata negata dal destino, beffardo, ingiusto, sadico. È un omaggio, è un abbraccio, è un gesto d’amore. Di fronte al quale i problemi di messa in scena e di struttura passano in secondo, terzo, forse ultimo piano. Vince l’amicizia, vince il ricordo, vince l’umanità. Vince la vita, anche dopo la provvisorietà della morte: un passaggio, una fase che apre a un nuovo inizio. Più sincero, più caldo, più consapevole. Più accorato.

Marco Romagna

“Kati Kati” (2016)
75 min | Drama | Kenya / Germany
Regista Mbithi Masya
Sceneggiatori Mbithi Masya, Mugambi Nthiga
Attori principali Nyokabi Gethaiga, Elsaphan Njora, Paul Ogola, Peter King Mwania
IMDb Rating N/A

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