KATE PLAYS CHRISTINE (2016), di Robert Greene
Ogni persona muore due volte: la prima quando il corpo cade inerme, la seconda e definitiva è quando si sparisce anche dalla memoria delle persone. Nel 1974, Christine Chubbuck era una giornalista televisiva. Il suo suicidio in diretta al termine del telegiornale, ultimo folle e decisivo gesto dopo anni e anni di ancestrale depressione, la fece salire alla ribalta delle cronache nazionali salvo poi, come tutte le notizie, essere accantonata e a lungo andare dimenticata. Aveva 29 anni, un’intera vita davanti, ma anche tanta devastazione e una pistola da puntare alla tempia. Oggi, la radiosa attrice Kate Lyn Sheil, classe ’85, è forse all’apice del suo successo: da VHS a House of Cards, passando per The Sacrament e Equals, la sua carriera all’interno del cinema indipendente americano sta da diversi anni prendendo il volo, tanto da essersi guadagnata su Rolling Stone la definizione di “Meryl Streep dei film a basso budget”. Il documentarista statunitense Robert Greene, a due anni di distanza da Actress, continua nella propria personalissima commistione fra finzione e documentario, continua nella propria personalissima ossessione per il ruolo dell’attrice, continua nella propria personalissima idea della performance totalizzante che prende il sopravvento. Kate plays Christine, prima di tutto, è un film sul cinema, sull’identificazione attoriale, sulla sofferenza. Greene, sempre fedele alla sua idea di cinema come ibrido fra il reale e il melodramma à la Sirk (ma non mancano diversi sospiri alla teatralità di Cassavetes), segue Kate nella preparazione del ruolo e nella sua progressiva immedesimazione, dalla lettura degli articoli di giornale agli incontri con chi conosceva Christine e oggi la ricorda a malapena, dall’armeria nella quale la giornalista comprò la rivoltella al laboratorio di parrucche, dalle lenti a contatto colorate fino ai luoghi bazzicati e vissuti dalla giornalista più di quarant’anni prima. Una vera e propria indagine, poliziesca e sentimentale, atta a creare un ben preciso climax emotivo nel cuore di Kate, ben al di là della recitazione e della sua indubbia capacità di ricoprire un ruolo.
Quello che interessa a Kate è tentare di capire i motivi di un gesto così estremo, tentare di entrare nei meccanismi e nelle ripetute delusioni di Christine, tentare di rivivere, con il metodo Stanislavskij al potere, la vita che dovrà rimettere in scena. Ma non sarà facile entrare in un ruolo del genere, un ruolo che finisce per essere particolarmente sentito, forse troppo, un ruolo struggente e devastante per chi lo dovrà ricoprire. Come Brandy Burre, in Actress, sentiva un richiamo e quasi una sorta di sdoppiamento che la stavano portando ineluttabilmente, come una forza irrefrenabile, a tornare al cinema, mestiere abbandonato anni prima per fare la mamma, in questo Kate plays Christine è Kate Lyn Sheil a sentire una sorta di cordone ombelicale con la giornalista suicida che progressivamente si fa sempre più forte e robusto, fino ad un quasi annullamento di se stessa per lasciare emergere quella diventata una vera e propria seconda personalità. Emblematica in questo senso è la splendida sequenza girata in mare, nella quale il processo di identificazione di Kate è già piuttosto avanzato e Greene mette in scena la lotta interiore fra le due donne ormai all’interno dello stesso corpo attraverso la sospensione dell’acqua, la parrucca che scappa via dalla testa, le rapide bracciate per recuperarla, e con lei l’identità che rappresenta. Kate non interpreta Christine, non la rappresenta: Kate diventa Christine, ne prova gli stessi dolori e le stesse emozioni, ben al di là delle lenti a contatto che trasformano i suoi occhioni azzurri in due fessure scure e tristi, bel al di là dell’acconciatura e del colore dei capelli, ben al di là della conoscenza il più possibile approfondita dei fatti e delle interpretazioni di chi le stava vicino. Fino a un finale potente e straziante, la difficoltà nel girare una scena così sofferta, i diversi take da affrontare, la bocca dell’arma da fuoco puntata verso la macchina da presa e poi verso la nuca, il grilletto premuto a salve e il dispositivo posizionato sotto la parrucca che pompa e spruzza il sangue finto. Arriva un attrezzista a pulire il set, Kate può finalmente togliersi la parrucca e le lenti a contatto, può tornare se stessa. Fino al prossimo ruolo.
Quello di Robert Greene è un cinema dichiaratamente “sporco” e ambiguo. Non sappiamo se questo film di finzione su Christine Chubbuck sia stato messo in scena per davvero o meno, non sappiamo chi lo possa avere diretto, non sappiamo nemmeno, all’interno di questo film, dove finisca l’approccio documentaristico e inizi quello della fiction più pura. Non sappiamo quale sia il confine fra realtà e illusione. Ed è proprio questa la forza del cinema di Greene, perché non ci interessa minimamente trovare una risposta a queste domande, persi nel flusso umano e narrativo che rivive sullo schermo. Piuttosto, i perdonabili limiti di questo film sono legati a una durata che, viste le carte messe in tavola, appare forse eccessiva. Sono infatti troppe le sequenze delle prove nelle quali si nota come Kate sia ogni giorno sempre più in parte, tanto da finire per diventare una ripetizione che appesantisce il film reiterando per 5 o 6 volte quello che si era già ampiamente capito in precedenza, così come risulta decisamente prolissa la sequenza nell’armeria, nella quale la scelta del revolver da parte dell’attrice ricalca sì la struggente scelta analoga della giornalista tanti anni prima, finendo però per passare in rassegna buona parte del negozio. In sostanza, Kate plays Christine non aveva forse tutti i 112 minuti che lo compongono, ma sarebbe decisamente ingeneroso attaccarlo solo per qualche colpo di lima mancante, di fronte a una lettura così acuta della recitazione e della ricerca della performance che annulla e poi ritrova l’identità della persona che andrà in scena. In fondo, ogni persona muore due volte: la prima quando il corpo cade inerme, la seconda e definitiva è quando si sparisce anche dalla memoria delle persone. Nel caso di Christine Chubbuck, una terza morte è riuscita ad annullare la seconda attraverso l’illusione e la puntualità del cinema. E noi, da esseri umani prima ancora che da cinefili, non possiamo che essere felici di avere recuperato almeno il ricordo di una persona così forte e triste.
Marco Romagna