JUSTE LA FIN DU MONDE (2016), di Xavier Dolan
“Venire qui non è mica la fine del mondo”. Uno sguardo, un sospiro, un sopracciglio aggrottato, un quasi impercettibile movimento della mascella. “Venire qui non è mica la fine del mondo”. L’incomunicabilità, un temporale, un battito d’ali.
Xavier Dolan è probabilmente il talento cinematografico più puro fra quelli in circolazione. Precocissimo franco-canadese classe 1989, ventisette anni appena compiuti con già sei film all’attivo e un settimo – il primo in inglese – già in postproduzione, Dolan del suo corpus filmico è regista, sceneggiatore, montatore, spesso attore protagonista, costumista e soprattutto assoluto centro nevralgico, al contempo soggetto da psicanalizzare e psicologo. Sin dall’esordio, quel J’ai tué ma mère di grandissimi sprazzi ma anche di inevitabile immaturità – ampiamente giustificata dal fatto di averlo scritto ad appena 16 anni e girato a nemmeno 19 -, nel quale l’uccisione ideale della madre era la recisione del cordone ombelicale per vincere il disagio adolescenziale scoprendo se stesso e la propria (omo)sessualità, il percorso filmico del regista canadese dimostra da una parte una mirabile coerenza tematica e stilistica in costante evoluzione e perfezionamento, dall’altra un evidente processo di de-dolanizzazione che sta progressivamente staccando sempre più l’autore dalla presenza di se stesso, ormai da lui per primo percepita come ingombrante, facendolo tendere sempre più all’universale. Un processo che siamo convinti – o quantomeno questa è la scommessa di uno scrivente di soli due anni più anziano del ‘piccolo genio’ – che fra qualche anno e qualche film, a maturità definitivamente raggiunta, saprà altrettanto definitivamente stagliare Xavier Dolan fra i giganti della celluloide, e che già adesso lo rende fra gli autori più interessanti e probabilmente in assoluto il più promettente. L’eclettico québécois è infatti prima di tutto un figlio degli anni Novanta, capace di catalizzare in uno stile unico e riconoscibilissimo sospiri sempre splendidamente in bilico fra il videoclip, la sperimentazione e il lirismo più ancestrale. Fra ralenti, accelerate, musiche pop e rock pronte a esplodere come un caleidoscopio di emozioni, sospiri e groppi in gola, sogni e libertà, Xavier Dolan, partendo da se stesso e dalle proprie problematiche, è (già) riuscito a diventare cantore di un’intera generazione. Una generazione però ancora in formazione, ancora incerta, ancora combattuta. Una generazione che, come Xavier, tanto ha promesso e tanto sta già mantenendo, ma ancora lontana, si spera, dal tempo dei bilanci. Una generazione ancora in evoluzione, in divenire, una generazione ancora alla ricerca di un punto d’arrivo. Per un cinema già irresistibile, eppure ancora in cammino, alla ricerca di istanze sempre nuove e della loro summa, in un percorso ondivago ma mai intermittente, chiarissimo, fino ad ora ai limiti dell’impeccabile in attesa del capolavoro definitivo. Un percorso per gradi, nel quale ogni film è un passo senza il quale sarebbe impossibile quello successivo.
Se nel successivo Les amour imaginaires il triangolo amoroso messo in scena, in realtà una già intelligentissima declinazione del tema del doppio da sempre ossessione del giovane cineasta, nient’altro era infatti che ancora una volta una fotografia di se stesso, del proprio bisogno d’amore e della propria ribellione fra amicizie e marshmallows, già dalla notevolissima opera terza Laurence Anyways, in uscita in Italia fra pochi giorni dopo un imperdonabile ritardo di quasi sei anni e ad oggi probabilmente – per quanto una simile classificazione non abbia troppo senso – il miglior film di Xavier, Dolan ha iniziato a farsi apparentemente da parte, rinunciando alla presenza in scena e alla propria centralità individuale nei temi per concentrarsi – con l’eccezione del successivo Tom à la ferme – “solo” sulla regia e continuare a cercare con una tensione emotiva sempre palpabile la propria personalissima e luminosa strada. Quello di Xavier Dolan è un vero e proprio tour dell’anima e dei linguaggi cinematografici, sospeso fra il proprio intimo, la contemporaneità, le problematiche legate all’omosessualità e all’accettazione, le famiglie disfunzionali, la letteratura, la musica, il teatro, la minuziosa direzione degli attori e la messa in scena sempre ancestrale e originalissima, proseguito con il già citato Tom à la ferme nel quale l’ultima apparizione anche come attore in un suo film era in realtà “de-dolanizzata” dal suo primo soggetto non originale, tratto dall’omonima opera teatrale di Michel Marc Bouchard, mentre al contempo il Dolan regista iniziava a limitare l’alternanza di ralenti e accelerate cercando nuovi lirismi nella sperimentazione sull’aspect ratio che troverà in Mommy il proprio apice. Se in Tom a la ferme apparivano infatti bande nere in alto e in basso a stringere la porzione visibile negli istanti più drammatici, rivelando una costrizione quasi asfissiante e riuscendo già a imporla allo spettatore, nel penultimo Mommy il ritorno a quella madre idealmente uccisa nel film d’esordio passava attraverso la splendida geometria asfittica di un formato 1:1, pronto in due occasioni ad allargare gli orizzonti per giungere al sogno. Orizzonti che in questo Juste la fin du monde, unico film presentato in 35mm a Cannes, girato nel più prudente e largo 1,88:1 eppure ancora più asfissiante e drammatico fra i primissimi piani e le sfocature, non si allargheranno invece mai. I diaframmi si aprono come il cuore, negano la profondità, schiacciano i personaggi su loro stessi. E li amano profondamente.
Due anni dopo il Premio della Giuria di Mommy ex-aequo con l’Adieu au Langage di sua maestà Jean-Luc Godard, l’enfant prodige torna sulla Croisette di Cannes per portarsi a casa anche il Grand Prix con la nuova fatica Juste la fin du monde. Film che non a caso si apre con un ritorno, quello a casa del protagonista Louis (Gaspar Ulliel), che in realtà è un approdo: quello di Xavier Dolan in Europa, nella Francia che lo ha ormai artisticamente adottato e che lo coccola a suon di premi nel Festival più importante al mondo, altro passo evidentemente necessario prima del cambio di lingua. E dopo Mommy che per molti versi faceva da ideale controcampo a Laurence anyways, Xavier Dolan non poteva in questo nuovo lavoro che tornare idealmente, per perfezionarsi ancora nelle sue forme più classiche del solito e nell’adattamento di un soggetto non originale, a Tom a la ferme, rielaborando ancora una volta una piéce teatrale, in questo caso l’omomima Just la fin du monde del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce, morto di AIDS nel 1995 e ancora oggi fra gli autori maggiormente messi in scena, insieme a Shakespeare e Molière, al di là delle Alpi. Ma prima di tutto, e sta qui la sua grandezza, Juste la fin du monde è un film di pura messa in scena e di direzione degli attori, atterrente nella sua costante mancanza d’aria, soffocante nei suoi dialoghi impossibili fatti di parole ritardate e di sospiri imbarazzati, devastante nelle inquadrature sempre alla ricerca di un punto di fuga negato. È un film di dettagli, nel quale uno sguardo che si fa improvvisamente torvo o una contrazione quasi impercettibile di un angolo della bocca riescono a ribaltare totalmente una qualsiasi situazione, è un film nel quale il campo e il fuori campo si abbracciano in un’indefinitezza costante, oppressiva, drammatica, è un film nel quale una mai così timida Marion Cotillard rasenta il sublime, nel quale un acido Vincent Cassel sempre in bilico fra l’imperturbabilità e l’esplosione assume una rara potenza, nel quale Lèa Seydoux dimostra ancora una volta tutte le sue doti, nel quale Nathalie Baye diventa la terza perfetta madre disfunzionale in una cinematografia che si conferma ancora una volta una lettura appassionata e ossessiva della famiglia, del risentimento, dei sensi di colpa, dell’incomunicabilità, dei sentimenti, della distruzione.
La trama è semplicissima, lineare, funzionale agli apici emotivi pronti a sgorgare, al pari di Wonderwall in Mommy, da I miss you dei Blink 182 e ancor più da una Dragostea din tei che inizia diegetica in una danza familiare per poi esplodere letteralmente sullo schermo come la memoria al momento del ritornello. Louis è un attore e drammaturgo omosessuale malato, al pari di Lagarce, di AIDS, che ha tagliato i ponti con la famiglia da più di dieci anni e che ora torna a casa per comunicare alla madre, al fratello e alla sorella la propria imminente morte. Ma al suo arrivo, senza che riesca a dire nulla, esplodono nuovamente tutte le incomprensioni, i rancori decennali, l’incomunicabilità di una famiglia ormai non recuperabile. Una madre lunatica ma non realmente pazza, un fratello che ha sviluppato una scorza taciturna e depressa, una sorella quasi sconosciuta e da scoprire fra cartoline e ritagli di giornale, abbandonata da bambina e ritrovata ora adulta, inguaribile cannabinomane, triste e sofferente ma ancora sognatrice. E soprattutto una cognata timida, repressa e fragile interpretata dalla miglior Cotillard di sempre, vista per la prima volta ma con la quale pare a tratti scattare, nonostante il “voi” ostinato, quell’intimità ormai paradossalmente impossibile con il fratello. Dolan mette i personaggi spesso di quinta, componendo il centro dell’inquadratura con il fuori fuoco, l’invisibile, l’imponderabile, l’ineluttabile, un futuro ormai segnato, mentre lascia che i suoi personaggi stiano a macerare nella loro impossibilità di ritrovarsi, fra nasi leggermente arricciati, litigi, giri nervosi in auto in un lungo e sublime camera car dal portabagagli capace di mettere a nudo il loro intero spettro emotivo, la loro paura, il loro dolore. Juste la fin du monde è un film di volti, di cibi preparati e consumati nervosamente, di tempeste fuori dalle finestre e veri e propri uragani dentro le mura, è un film su un muro invisibile, sulla diversità delle strade prese, sulla morte e sull’amore.
Juste la fin du monde è un kammerspiel, è un ritratto di famiglia in un interno, è un melò, è un thriller, è introspezione psicologica e segreti di famiglia, è la necessità di incoraggiarsi a vicenda, è un “Non ti capisco ma ti amo” apice dell’onestà di una madre fragile. Juste la fin du monde sono i discorsi vuoti e inutili per l’impossibilità di parlare, è l’incapacità di comunicare senza aggredirsi, è uno sguardo sulla vita che scorre, sul tempo perduto, sulla lontananza, sull’infelicità, sul fallimento. È brutalità, è repressione per convenienza, è una pentola a pressione familiare pronta a esplodere, sono gli occhi lucidi e la fuga, ancora una volta e per sempre. È un’apocalisse personale e familiare, è un litigio che inizia con il temporale e finisce con il sole, è un naufragio, è un volo, è una malattia, è il bisogno ancestrale del proprio passato come unica via per riscoprirsi. Ma soprattutto è ancora una volta, con modalità sempre diverse, il tema del doppio, anzi in questo caso triplo, quadruplo, potenzialmente infinito. Un doppio fra fratelli, fra cognati, fra madri e figli, un doppio isterico, drammatico, insormontabile. Xavier Dolan continua il suo percorso autoriale, trovando le proprie tematiche di riferimento in un testo teatrale che rispetta con cura inserendo però tutta la propria visione cinematografica, parlando di AIDS senza mai nominarlo e stringendo senza sosta sui volti dei protagonisti, sui loro occhi, sulle loro labbra, sui loro colli tesi sui quali scende lentamente una goccia di sudore, come un attento osservatore, come un innamorato, meticciando in una splendida soluzione di continuità gli anni Ottanta del testo di Lagarce con i Novanta-Duemila della propria formazione. Juste la fin du monde è cinema, è teatro, è rappresentazione, è una poetica che nasce dall’unione fra due poetiche fortissime, è la capacità straordinaria di Xavier Dolan nel dirigere il cast e nel curare l’aspetto visivo creando un flusso emotivo costante e ancestrale. Juste la fin du monde è un orologio a cucù che prende vita, illude, muore, svanisce. Il tempo che diventa fisico, ma giusto per i pochi istanti di qualche battito d’ali. Non resta che andare via, non resta che tornare alla propria vita e al proprio destino, non resta, forse, che piangerne. “Venire qui non è mica la fine del mondo”. O forse è solo la fine del mondo. Chissà!
Marco Romagna