JUST 6.5 (2019), di Saeed Roustaee

Una sequela di porte da abbattere una dopo l’altra, seriali, scrostate, deboli, simmetriche, apparentemente infinite. Una, due, tre, quattro, ma dopo ogni porta ce n’è sempre un’altra, ancora a nascondere, a celare, a dissimulare, a rendere (in)afferrabile, come una matrioska di cui forse non si riuscirà mai ad arrivare al vero cuore. Sta già tutto nell’emblematica e spettacolare sequenza iniziale, Just 6.5. Sta già tutto in quella serie di porte da tirare giù in una progressione quasi infernale verso il nulla. Sta già tutto nell’inseguimento a perdifiato a piedi per i vicoli più polverosi di Teheran di quel piccolo spacciatore che stava dietro le porte e che non riuscirà a disfarsi della sua busta di sostanza stupefacente, ma la farà cadere nelle mani della polizia che lo tallona e lo spaventa. E soprattutto sta già tutto nel suo cercare riparo in una buca stradale da cui non riuscirà mai a risalire, nella quale finire per sempre e tragicamente la sua fuga e la sua vita investito e sommerso dal cumulo di terra e pietre spostato dalla ruspa che sta richiudendo la fossa. Un altro morto, l’ennesimo, sepolto vivo senza che nemmeno quelle autorità convinte di averlo perso e rassegnate a continuare a cercarlo se ne siano rese conto. In un incipit mozzafiato e agghiacciante di pura matrice action, rapidissimo e straordinariamente teso nelle sue carrellate laterali concitate che per molti versi guardano a Hollywood, capace da una parte di innestare sin da subito l’affresco sociale quasi documentaristico nel quale è la mancanza di alternative alla miseria ciò che spinge i più poveri verso la delinquenza, e dall’altra di dimostrare e potentemente denunciare sin dall’inizio le evidenti mancanze del sistema legale del Paese, nello specifico su come la lotta alla droga portata avanti a tutto fiato della polizia sia strenua quanto vana, inutile, raggelante e probabilmente dannosa nella sua inumanità, nei suoi continui soprusi, nella sua striscia di morti e nel suo costante fallimento. Perché indagando, inseguendo, minacciando, arrestando, picchiando e giustiziando senza processo magari nell’arco di una stessa giornata si può di certo arrivare ai disperati, ai consumatori, per poi risalire la piramide fino ai piccoli pusher, ai corrieri con la pancia piena di ovuli, a qualche magazzino o magari pure alla villa qualche boss salvato dal tentativo di suicidio giusto per poterlo impiccare poco dopo e in nome dello Stato, ma mai si giungerà ai narcotrafficanti, quelli veri, quelli realmente ricchi e non mossi da disperazione. Forse gli unici reali delinquenti in un sottobosco di (non) criminali disperati, che agiscono nell’illegalità per mangiare o per garantire gli studi e un futuro diverso per i propri figli.
Compreso, appunto, il boss, più “furbo” degli altri, più in alto degli altri, eppure anch’egli mosso dalla necessità e da una sofferenza sociale, politica, a suo (discutibile quanto si vuole) modo filantropica in mezzo all’aridità umana di un sistema legale indecente. Tutti colti nel paradosso di delinquere per impedire che la società che ora li bracca e li punisce possa creare nuovi disperati, e quindi nuovi criminali, mentre ogni giorno continuano imperterrite a essere consumate tonnellate e tonnellate delle più disparate sostanze. Un dilemma stratificato e dalla soluzione probabilmente impossibile, messo in scena da Saeed Roustaee nella sua opera seconda presentata a Venezia nella sezione Orizzonti con un occhio all’exploitation del genere e l’altro al ben preciso affresco sociale di un dramma dialettico, umano e politico. Un cinema nerboruto, ellittico e necessariamente estenuante, tutto giocato fra l’action e il dialogo, fra l’ambiguità e l’amarezza, fra una precisione pressoché documentaria e più d’un vagito di resistenza – se non altro alle ben note e molto spesso pesanti forbici censorie del Paese – nel mettere alla berlina l’intero sistema della giustizia. Perfettamente conscio della mancanza di una verità assoluta, di “buoni” e di “cattivi” chiari e senza sfumature, ma al contrario di come tutti, quale che sia la loro posizione, facciano parte e al contempo siano vittime di un sistema corrotto e malato, ingiusto nella fame che porta al delitto quanto nella (in)giustizia violenta forcaiola che cerca invano di contrastarlo, in cui l’emergenza droga è solo la piccola punta dell’iceberg di un ben più radicato sentore di amarezza e frustrazione.

Just 6.5 possono essere 6 milioni e mezzo di tossicodipendenti iraniani, o forse i cadaveri a metro quadro, o ancora le tonnellate di crack quotidianamente fumato. In ogni caso, non certo il numero sbandierato da quello che sarebbe potuto facilmente diventare un pamphlet moralista contro la droga, ma esattamente all’opposto i numeri del fallimento su ogni fronte della società, nell’allargarsi a macchia d’olio di una piaga sociale quotidianamente combattuta con premesse e metodi sbagliati, e anche per questo, forse proprio per questo, così inarrestabile. Non la ferma la brutalità, non la fermano le condanne a morte, non la fermano le indagini spesso più illegali del reato, fra evidenti violazioni di domicilio, minacce a donne e bambini e case messe a soqquadro magari senza trovare nulla in nome di un’indiscutibilmente buona fede che sa però troppo poco rimettersi in discussione e andare al di là della contingenza e di (fuori) protocolli sbagliati. Non la fermano gli abusi di potere di violenza, non la fermano le intimidazioni e le pressioni psicologiche, non la fermano le umiliazioni degli arrestati di un’umanità variegata eppure allo stesso modo afflitta e sofferente ammanettati ovunque e impossibilitati a sedersi. Così come non la fermano le sostanziali deportazioni in quel carcere/lager/zattera di fantasmi che diventa l’unico luogo in cui tutti i livelli di un mondo agonizzante, nella sofferenza, tornano realmente uguali e alla ricerca di quell’unico telefono portato dentro con cui provare a sentire un avvocato, un familiare, qualcuno che possa in qualsiasi modo salvare loro la vita. Né può fermare la piaga la mancanza sempre più totale e inumana di empatia, quella dei poliziotti sempre più duri e spietati, quella di una fidanzata che cede alle minacce e rivela l’indirizzo del ricercato, quella di un marito che nasconde la droga nel vestito della moglie, oppure quella di un padre disposto a usare come basista, incolpare e infine fare incarcerare (in riformatorio) il figlio per il semplice motivo che la sua pena sarebbe stata meno lunga della propria. Sempre ammesso che per lui fosse contemplata una pena non di morte. Il che rende comprensibile e in qualche modo giustificabile, o per lo meno ingiudicabile, persino il suo comportamento.
Ci sono volute più di 10mila esecuzioni, perché nel 2017 l’Iran si rendesse conto della necessità di addolcire le pene per la detenzione e per l’uso personale. Ci sono voluti migliaia e migliaia di morti, tutti pedine di un qualcosa di più grande e più perverso: tutti vittime della povertà, della fame, della necessità di sopravvivere in una realtà ostile. In un mondo in cui tutti sono disposti a tradire tutti. Compresi i colleghi della narcotici, in lotta per quella promozione che può dare a uno solo dei due la certezza di accontentare la famiglia al punto di testimoniare il falso per accusarsi a vicenda, pur di vedere il collega ammanettato fra i criminali nel tentativo disperato di uno di loro di fingere – la parola di uno contro la parola dell’altro – una complicità inesistente in modo da ribaltare le carte in tavola. Un gioco squallido, proprio come squallidi sono quei tubi industriali abbandonati in cui, quasi come in un alveare di disperazione, intere orde di tossici fumano crack. Ma lo squallore fa parte della vita, della società, della Storia, di una legge (e non per forza giustizia) che, fra parole, raggi X a esplorare gli stomaci, doppi giochi, accuse, violenze, una pressione psicologica sempre più insostenibile e laboratori che esplodono facendo saltare con loro ogni prova, fa il suo corso di repentini e inaspettati ribaltamenti verso il solito vicolo cieco. Sono i tentativi di corruzione, Just 6.5, sono le identità multiple o sconosciute, sono i rapporti da scrivere che possono decidere della vita e della morte di un uomo, sono le iniquità sociali, sono casi giudiziari che fanno sempre parte di qualcosa di più grande, sono impiccagioni nella notte che non portano mai a nulla se non a un profondissimo senso di colpa. Sono pacchetti lanciati e (mai) recuperati, sono drammi familiari e di coscienza, sono bambini innocenti che fanno la ruota in mezzo alla stazione di polizia da salvare dalla miseria e dallo stesso destino che ha colpito i loro padri. E importa relativamente se, nel corso delle oltre due ore e un quarto del suo scorrere, la sceneggiatura di Saeed Roustaee scopre il fianco a qualche reiterazione, a qualche prolissità, a qualche pennellata di forse eccessiva retorica, a qualche sbavatura dialettica. Quello che conta è il suo continuo rimettere in discussione. Quello che conta è il suo partire dal punto di vista delle forze dell’ordine per poi progressivamente ribaltarlo su quello dei “criminali”, dimostrando come siano pure vittime di un vicolo cieco e senza uscita, braccate da una parte dalla fame, dall’altro dai superiori nella scala criminale, e poi da quelle altre vittime che indossano i panni della legge. Dei martiri, ben più che dei criminali. Con i quali tornare, finalmente, all’umana comprensione, alla solidarietà, a qualche timido barlume di giustizia.

Marco Romagna