Gli errori dei genitori non dovrebbero mai ricadere sui figli. E meno ancora dovrebbero farlo le loro lotte intestine, i loro divorzi combattuti, le loro richieste di affido e di assegni di mantenimento. L’amore fra Antoine e Miriam è ormai finito, mutato in paura, odio, disprezzo, fra una donna che accusa l’ormai ex marito di essere pericoloso e violento e un uomo che controaccusa la sua ormai ex moglie di mentire, di avere plagiato i figli montandoli contro di lui, di volergli togliere senza motivo apparente il sacrosanto diritto di vedere chi porta e per sempre porterà il suo cognome. Parte molto bene Jusqu’à la garde, opera prima del francese Xavier Legrand presentata in concorso a Venezia74 e che uscirà in Italia con il più semplice titolo L’affido, con l’udienza in tribunale per, appunto, l’affido congiunto del piccolo Julien, mentre la figlia maggiore Josephine, ormai sul confine della maggiore età, non può essere contemplata dal tribunale e sceglierà con la propria testa di continuare a non avere nulla a che fare con Antoine. Parlano ormai per interposta persona, gli ex-coniugi, senza mai guardarsi negli occhi. Parlano attraverso le arringhe e le istanze portate avanti dai loro avvocati, parlano attraverso i certificati medici e le carte bollate, parlano attraverso le accuse reciproche, fra oggettività e rancore, in attesa che il giudice deliberi sull’immediato futuro del loro bambino. Ed entrambi mentono, per difendersi e per difendere la famiglia, per portare acqua al proprio mulino. Antoine non è di certo un ottimo padre: è iracondo, vendicativo, indubbiamente depresso, ma forse non merita l’isolamento nel quale è sostanzialmente costretto da quelli che dovrebbero essere i suoi affetti, forse non merita che la ex moglie lo eviti fra indirizzi segreti e cellulari staccati, forse non merita che il figlio non gli voglia nemmeno rivolgere la parola. O forse si.
L’esordio di Legrand è un film indubbiamente interessante, girato con mano già salda, intelligente nel cavalcare le ambiguità di tutti e due i protagonisti senza dare per lungo tempo risposte su chi abbia ragione nel contenzioso fra coniugi, e nel mettere nel frattempo in scena gli effetti distruttivi della loro lotta su chi è innocente, su chi non può che subire il tira e molla di una famiglia che non c’è più, su chi non può che ritrovarsi come unica vittima in mezzo ai loro litigi e alle loro incomprensioni, “Per colpa di tua madre che si fa negare non andrai alla festa di tua sorella”. Ma quello di Legrand è anche un film in un certo senso schizofrenico, bipolare, tanto proteso nella prima parte a concentrarsi, fra litigi e ripicche, sulla ricostruzione del rapporto fra padre e figlio, quanto pronto nella seconda a ribaltare genere, trama e conclusioni in una sorta di horror domestico, definito dallo stesso regista “contro il femminicidio”, nel quale il padre si rivela per quello che è, ovvero realmente un violento, un sadico, un pazzo, un uomo da tenere lontano. Fino a una resa dei conti che tende quasi a Shining con in mano un fucile a pompa al posto della celeberrima accetta, mentre madre e figlio, fra terrore e crisi isterica, si ritrovano nella vasca da bagno a sperare nell’intervento della polizia. L’affido procede verso il baratro, verso il male, verso la follia, verso l’implosione, e quello che per tutta la prima metà sembra un uomo le cui intemperanze sono quelle di chi ha la sola colpa di amare senza essere (più) ricambiato, verrà successivamente tratteggiato come una sorta di orco delle fiabe, psicopatico ed egoista, pericoloso e malvagio. E proprio qui stanno i maggiori limiti de L’affido, la sua perdita di lucidità e di equidistanza che si pone come un macigno ben più pesante, una volta messo sulla bilancia, rispetto alla tensione palpabile e l’interesse che, nonostante tutto, la sezione finale riesce a creare. C’è una sequenza in particolare che si sarebbe potuta (dovuta?) porre come momento-chiave emotivo del film, e che invece ne è diventata in un certo senso il principale problema: quando il padre, fra grida e minacce, scoprirà il reale indirizzo della sua ex-moglie, piomberà nella sua casa a sbraitare e litigare per poi scoppiare a piangere come un bambino, da aggressivo a remissivo, dalla corazza del macho all’intimità dell’uomo fragile messa a nudo. Ma da qui, anziché continuare lavorare sul recupero sociale e affettivo di un uomo, il film prende una strada diversa, opposta, finendo inevitabilmente per rivelare tutta la sua confusione nelle ambizioni e negli assunti.
È difficile non creare emozione e identificazione quando di mezzo c’è un bambino impaurito e minacciato, e Legrand è indubbiamente abile a farlo senza piombare in una retorica che sta sempre dietro l’angolo, ma mai deflagra, in un film che sceglie di rimanere trattenuto, mai davvero sopra le righe nemmeno quando entra in campo la psicopatia, spiazzante, magari limitativa per un film che stava dicendo – molto meglio – un’altra cosa, ma non certo campata per aria. Fra le case separate dei due genitori, i viaggi in auto da una all’altra e un bambino/pacco postale che diventa merce di scambio e occasione di reciproci ricatti fra i genitori, L’affido è un percorso che scandaglia le difficoltà del divorzio e l’immaturità genitoriale, i rapporti umani e la loro fine, le minacce e le ripicche, le reticenze di una coppia e la paura di chi si trova fra i due fuochi. C’è una figlia che marina il conservatorio per vedersi con un fidanzato che il padre disapprova, c’è una madre che vorrebbe proteggere i suoi figli ma non riesce a convincere il giudice dell’effettiva pericolosità di quello che è stato il suo uomo, c’è un padre immerso in una spirale (auto)distruttiva, temuto dall’ex-moglie, inviso a figli che nemmeno gli vogliono parlare, e poi, mentre cresceranno esponenzialmente le sue intemperanze ulteriormente alimentate dalla freddezza e dal disprezzo che gli volteggiano intorno, cacciato di casa persino dai propri genitori. Dalla festa per la maggiore età della figlia a cui non verrà fatto entrare, Antoine finirà inevitabilmente per attaccarsi al citofono, poi al campanello, poi al fucile, con il quale sfondare la porta di casa e farsi da solo la propria deviata idea di giustizia. O a trovare l’arresto, liberazione per la sua vittima, il figlio, e per l’altra vittima, Miriam, che però in un certo senso ricopre anche il ruolo di carnefice fra le provocazioni e gli ostinati silenzi che spingeranno ulteriormente lo stato di Antoine e la situazione verso il baratro. Non è un film perfetto, L’affido, e anzi è un film che procede per lunghi tratti senza bussola, che spreca parte delle sue occasioni nella ricerca di un (im)possibile approdo definitivo per la necessaria provvisorietà di una psiche ferita. Ma è indubbia la sua capacità di riflettere, non tanto nel dolore e nel terrore messi in scena mentre un padre/pentola a pressione non può fare altro che esplodere, ma proprio nella psicologia del leone ferito, nel suo saltellare fra la tenerezza e l’ira, nella sua incapacità di porsi, nella sua fragilità disperata e distruttiva. E questo, al di là degli scarti concettuali decisamente meno convincenti, non è nemmeno pochissimo. Specialmente in un’opera prima.
Marco Romagna