JUNUN (2015) di Paul Thomas Anderson
Paul Thomas Anderson è tra i più rinomati e celebrati registi statunitensi viventi, eppure il suo processo cinematografico, che causa discrepanze tra gli appassionati e anche all’interno della redazione di CineLapsus, ha più di qualche mistero. La sua filmografia è iniziata con Sydney (1996), un dramma noir di personaggi e sentimenti, ed è proseguita con (in ordine) un trattato scorsesiano sulla storia del cinema pornografico (Boogie Nights, 1997), un film corale sul Caso come entità cinematografica divina che scopiazza un po’ America oggi (1993) di Altman (Magnolia, 1999) e una commedia romantica eccentrica e colorata con Adam Sandler (Ubriaco d’amore, 2002). Eppure, nonostante la varietà dei progetti, dal 2007 è come iniziata una nuova ennesima fase della propria filmografia, che ha regalato quelli che sono probabilmente i suoi tre film più completi: Il petroliere (2007), instant-cult estraniante di analisi psicologica di uno dei personaggi più disumani del cinema hollywoodiano, The Master (2012), ritratto alienante di un gioco ipnotico e metacinematografico tra il cervellotico e lo spirituale, e Vizio di forma (2014), un film a metà tra il thriller di spionaggio e la commedia tossicodipendente, con un tocco di romanticismo che aumenta l’empatia verso una grottesca galleria di personaggi macchiettistici, folli, alieni.
E con una filmografia così, un oggetto come Junun, visto alla festa del cinema di Roma, non può che presentarsi immediatamente come un qualcosa di misterioso. Sappiamo che le musiche originali di Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead e compositore di musica sperimentale e classica, è tra le principali ragioni del successo di critica degli ultimi tre film di Anderson, ma era difficile forse immaginare che il regista si sarebbe dedicato ad una formula filmica così anomala rispetto a quelle solite, con addirittura un documentario musicale girato attorno alle peripezie indiane del musicista durante una sessione di registrazione con musicisti del luogo, capeggiati dall’affascinante genio compositore Shye Ben-Tzur – che aveva partecipato alla colonna sonora di Vizio di forma. Il mediometraggio, di poco più di 50 minuti, è quasi tutto incentrato sulla musica stessa, sull’intrecciarsi labirintico (a volte anche goffo) delle immagini attorno alla ragnatela dell’orchestrazione degli strumenti.
Anderson inquadra a macchina fissa gli strumenti oppure si muove noncurante di dare pesantezza alla propria mano, rendendoci partecipi della sua presenza come “turista” nel mondo della musica, facendo in modo che siano gli strumenti a creare il ritmo del film più che i cambi e gli stacchi di inquadratura. Si può vedere l’operazione come un semplice documento di ricerca della libertà (verso quel cielo blu riempito dalle macchie degli uccelli che volano come note musicali, mentre n uomo sul tetto lancia carne ai rapaci) attraverso il mezzo della musica come introspezione e viaggio culturale verso nuovi mondi, e quindi si possono aumentare di spessore gli interessi basilari del cinema di Anderson stesso: non più osservazione distante della tragedia umana quanto visione ampia dell’organicità delle parti – che sono tanto gli strumenti suonati dagli esseri umani quanto gli esseri umani stessi.
Oppure si può vedere il film come un atto umile di ricerca visiva da parte di Anderson, un autore solitamente preciso e chirurgico che qui si dà ad una regia e ad un montaggio volutamente approssimativi e basilari. Questo è perché le immagini, anche le inquadrature con le GoPro o con i droni, sono più semplici e più sincere, legate in maniera immediata alla realtà, e Anderson regredisce il proprio sguardo allo status di uno sguardo infantile, turistico, che si immerge tra i colori con la stessa innata curiosità con cui si immerge tra i suoni tribali con cui sperimenta Greenwood. Non sarà un film particolarmente originale nella sua (ironica) “stratificata semplicità”, ma è un nuovo punto di vista, una nuova immersione di un regista quadrato e rigoroso in una modalità di fare cinema che non gli appartiene ma che riesce a circumnavigare con la competenza di un autore che sa sempre quel che vuole creare – che sia solo una sviolinata a Greenwood o meno.
Nicola Settis