JULIETA (2016), di Pedro Almodòvar
Nei padiglioni del Palais si conversa con gli amici, a volte di corsa, a volte per la durata di una tazzina di caffè, e si commenta quello che si è appena visto. Spesso, anche quello che si vedrà più tardi. Questa mattina, appunto conversando, abbiamo scoperto che a noi Julieta di Pedro Almodovar è piaciuto per gli stessi motivi per cui altri lo hanno detestato.
Sul banco di prova, gli elementi che si può immaginare: nessun passo avanti stilistico o concettuale (anzi, addirittura ci sono dei passi indietro, in Julieta, dei ritorni a uno scrivere e a un fare cinema più prossimi a opere del passato, come d’altronde in questo festival ci era già capitato di notare, e sempre in senso positivo, per Ken Loach), qualche squilibrio narrativo, una non equa distribuzione del peso dei personaggi sulla scacchiera, insomma, le solite cose.
Sta di fatto che Almodovar ha un “gesto filmico” tale da rendere riconoscibile la sua mano (laddove per mano si intende qualcosa di complesso, di composito, qualcosa che è inerente sia alla scrittura che al posizionamento della macchina da presa, alle giustapposizioni cromatiche di ogni fotogramma, alle soluzioni di montaggio, e di tutto questo è condensata una summa folgorante già nei primi due minuti di film) al primissimo impatto con il film. Si potrebbe aprire, proprio grazie al cineasta castigliano, un discorso su quando si può dire, di un regista, che sia diventato la maniera di se stesso e quando, invece, riesca a portare avanti in maniera coerente e autorevole delle caratteristiche di stile.
Il pretesto per un tale dispiegamento di sapienza registica è una storia che ha radici in una raccolta di racconti di Alice Munro, Runaway, in Italia pubblicata da Einaudi con il titolo In fuga. E l’impianto letterario è conservato da Almodovar, che utilizza il romanzo epistolare come spina dorsale di tutto il film, partendo dal presente madrileno e con Julieta che racconta alla figlia, lontana, scappata, forse perduta, le vicende drammatiche che hanno attraversato tutta la sua infanzia. È sul rapporto tra una madre e una figlia, il film, sulle cose dette e soprattutto non dette.
Julieta è una professoressa di greco che, un giorno per caso, incontra la migliore amica della figlia Antìa, che non vede da dodici anni. La ragazza, Bea, le dice di aver incontrata Antìa sul Lago di Como, ma non ha altre informazioni. Julieta, quindi, decide di restare a Madrid e non accettare l’invito del compagno, che vorrebbe farle cominciare una nuova vita con lui, in Portogallo. È qui che il melodramma annunciato scolora definitivamente nel noir, complice anche il dispositivo del flashback e l’utilizzo di alcuni elementi indicativi del genere: su tutti, il viaggio in treno di una Julieta giovane e femme fatale, con tanto di incontro con “sconosciuto” fatale. Il montaggio, con il ritorno insistito sui dettagli e con la giustapposizione sovente, nella stessa inquadratura, della figura umana e della sua rappresentazione artistica in chiave simbolica, fa il resto. Da qui, infine, prende le mosse l’indagine nel tempo di Julieta, che, tramite la letteratura, di fatto, fosse anche quella epistolare indirizzata teoricamente alla figlia ma praticamente solo a se stessa, prova a ricostruire un rapporto che non è sopravvissuto alle tragedie, che non è uscito indenne dalle tempeste. Argomento, quello della tempesta e soprattutto di ciò che accade quando è finita, quando a sopravvivere sono solo i brandelli di ciò che c’era prima, che abbiamo ritrovato anche nello splendido film di Kore-eda, passato in Un Certain Regard. Ma questa è un’altra storia.
Elio Di Pace