Capita, a volte, di definire l’amore nel senso più ampio di mappatura in cui muoversi senza coordinata alcuna nella, spesso vana, speranza di rintracciarlo. Allo stesso tempo, il senso del viaggio, tra perdita e scoperta, è spesso atto d’amore e direttamente cronaca di quello che passa davanti ai nostri occhi. Il personalissimo detour ai limiti delle proprie pulsioni dei protagonisti di Jours de France, esordio di Jérôme Reybaud presentato come primo film in concorso della trentunesima SIC veneziana, si intravvede già nel momento di essere stato, delle possibilità in potenza che la vita ti mette di fronte quando la solitudine ti mette sulla strada, proprio perché solo la solitudine non potrà mai tradirti. La fuga è l’elemento imprescindibile dell’inseguimento, e viceversa, di questi due ragazzi de-centrati che dall’Avernia corrono verso le Alpi, che dall’oceano nuotano fino al mediterraneo. Si viaggia per una mancanza altrui, si viaggia per una perdita che deve essere per forza la propria, attraverso una tecnologia che dovrebbe farsi reticolo stabile e scrutato di traiettorie ed obbiettivi ma che non è nient’altro che il principio di sussistenza del romantico. In Jours de France l’Alfa Giulietta bianca del protagonista è targata 75, Parigi, ma Parigi è ciò che ci si lascia alle spalle, appare solo nei ricordi: i quattro giorni di fuga e inseguimento in giro per la Francia sono le campagne, sono i margini, sono i confini, da nord a sud, fino ai quasi 3000 metri del Colle dell’Agnello.
Galeotta è un’applicazione per incontri, usata dal fuggitivo per trovare carne fresca e nuova, usata dall’inseguitore per ritrovare l’amato. Ma il punto non è il sesso: nell’errare speculare di queste due figure nel paesaggio, a dominare è la prospettiva del sonno/sogno in cui qualsiasi incontro è prima d’anima e poi (forse) di corpo. Il giovane ambizioso, l’anziana smemorata, il distinto signore introvabile e il rugoso adolescente sono ritratti astratti ma profondissimi di confini d’Europa, in cui nessuno si sente di aver un ruolo e spazio predefinito, ma allo stesso modo nessuno ha il coraggio di cercarselo. In questi quattro giorni (ma soprattutto quattro notti), la geografia diventa protagonista inscindibile di ciò che appare ai loro/nostri occhi. La provvisorietà di un incontro riempe di senso la precarietà di un luogo come se esso potesse esistere solo nell’attimo in cui possiede un amore. Il tempo si disperde in questo spazio rivendicato come gioco della passione che attraversa volti e incorpora anime, in cui la fisicità del movimento precede, e talvolta esclude, il contatto erotico (basti pensare alla dolcissima scena della masturbazione filtrata dall’ostacolo muro), ma mai quello umano, di (auto)coscienza, viaggio e sentimento.
Reybaud, in questo esordio così particolare e sorprendente, ci mostra di amare Pierre e Paul proprio per la loro vivida e magnetica dispersione. Li mette in gioco, e pare abbandonarli in questo film, proprio perché entrambi sono consapevoli di essere vicini a (ri)trovare la strada verso il proprio amato. Nell’accezione pura di una Nouvelle Vague altra, è proprio il rapporto tra conoscere e conoscersi, rappresentato dall’alternanza di un montaggio vorticoso, la speranza sempre meno vana che un attimo come un viaggio possa valere una vita intera. Nel loro eterno sfuggirsi da fantasmi in ricerca del proprio senso, sanno che solo attraverso il totale affidarsi al proprio desiderio potranno riconciliarsi. Inevitabile è dunque quell’abbraccio, quel contatto così intimo e profondo da scardinare qualsiasi coordinata tecnologica, a donarci un nuovo desiderio di essere e pensare ancora una volta a quand/to l’immagine possa specchiarci in qualsiasi luogo; come se ci dicesse che ogni esperienza è sempre l’eterno ritorno, a cui qualsiasi partenza pare ricondurre.
Erik Negro