JOURNEY TO THE SHORE (2015), di Kiyoshi Kurosawa
Continua in modo straordinario il viaggio di Kiyoshi Kurosawa sulla fisicità, sulla presenza di un’immagine che esiste solo nell’atto di descrivere un’assenza. Il marito di Mizuki è scomparso da tre anni. Una sera qualunque, improvvisamente torna a casa e chiede a Mizuki di andare in viaggio con lui. Le tappe che percorreranno sono un continuo detour attraverso i luoghi e le anime che hanno formato Yuzuke. Durante questi viaggi lei riesce a scoprire finalmente dove sia fuggito il marito in questi tre lunghi anni, ma lui scompare e riappare, la sua entità si fa sempre più liquida, in scarti continui tra dubbio e ragione. Proprio da lì le tracce del film si perdono definitivamente, come quelle dei due loro giovani protagonisti. Non sappiamo più nulla, chi e cosa esista realmente, e cosa sia confinato in un limbo di presenze percepite dalla sensibilità dei personaggi.
Nulla pare tornare, nessuno è triste, felice o timoroso di questa esperienza sovrannaturale ed empatica che compiono lungo la fonte della vita/morte che attraversano. Allo spettatore, allora, rimane solo l’incoscienza di quella persistenza (della memoria) da attraversare senza la minima ansia o paura nel ciclo infinito di sguardi criptici in cui tutti appaiono rispostati, in una realtà altra, che contempla l’esistenza solo attraverso la percezione dei sensi e la rievocazione di questi ultimi nei ricordi dell’altro. Mai pare essere un melodramma e mai pare rappresentare il tempo stesso di un thriller psicologico, emergono pian piano le istanze da metafora labile e stratificata sulla società patriarcale giapponese, che diventa una misura sempre più sottile di emancipazione e convocazione stessa di libertà (umana, che diventa narrativa nel film). Solo quello che può essere percepito esiste (anche se reale non lo è), la drammatica umanità della percezione ha lo sguardo allucinato e tenero di chi all’oblio contrappone l’immagine scrigno, quella che convoca nella realtà tutti coloro a cui non possono più appartenere.
Quello di Kurosawa pare una specie un continuo viaggio alla deriva della reale, di cui il Cinema si presenta come unica forma certa dell’esserci e del vedere. Tutto pare incastonato, in una romantica fantascienza ma dall’imprinting fortemente giapponese. Tutto e’ esistito nel passato, solo di quello siamo certi. Il presente è fatto di continui abbracci nel vuoto ed il future non sembra esserci affatto. E’ forse solo il rituale del compiersi di un destino fin troppo umano a liberare e sbloccare loro stessi, e in un certo senso anche noi. Opera di un autore straordinario, manipolatore di castelli d’apparenza ed emozioni a cui possiamo appartenere solo attraverso l’ombra, in scarti psicologici di indubbio fascino e complessità. Journey to the Shore è un film d’impressioni complesse e stratificate, continuamente in ricerca, opera che racchiude molto dell’ultimo Kurosawa e che ne eleva il dolcissimo spazio umano dell’abbandono, indubbiamente tra i suoi lavori più riusciti.
Erik Negro