6 Settembre 2024 -

JOUER AVEC LE FEU (2024)
di Delphine e Muriel Coulin

Come ci trovassimo di fronte ad un film di Stéphane Brizé ipersemplificato e letterale, Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin mette al centro del discorso, e del fotogramma, Vincent Lindon, un operaio ferroviario con la sua dirittura morale e il suo essere fuori dal tempo come tratti caratteristici del personaggio e, quasi, dell’interprete stesso, ormai portatore d’istanze precise con la sola fisicità, i mezzi toni interpretativi, l’approccio dolente ma mai rassegnato alle avversità. In Concorso a Venezia 2024, il quinto lungometraggio delle sorelle originarie di Lorient, nord-ovest del Paese in piena Bretagna, che avevano esordito nel lungo di finzione con 17 ragazze (presentato nel 2011 alla Semaine de la Critique cannense), è una storia tutta al maschile che rappresenta quindi l’ennesimo steccato abbattuto da una suddivisione di genere che, almeno al cinema, comincia a non avere più senso alcuno. Un’opera in cui il testosterone, tratto distintivo della biologia al maschile, influenza comportamenti e decisioni, rovina rapporti, ridefinisce l’agire stesso dei protagonisti sul proscenio. Che sono, principalmente, tre: papà Pierre (Lindon) e i suoi due figli Louis e Felix, detto Fus, abbreviazione di fussball, il termine tedesco che indica il gioco del calcio. L’uso dell’appellativo tedesco, conferitogli dalla madre defunta, è motivato dalla posizione di Metz, capoluogo della regione della Mosella non lontano dal confine con Germania e Lussemburgo e luogo d’origine e di vita dei personaggi. La quotidianità dei tre è stata ridefinita, negli anni, dall’assenza della madre presto scomparsa, ed ecco che il femminino in sceneggiatura arriva a definire il suo imponente peso specifico, seppur in assenza. Pierre si è barcamenato nel ruolo di genitore unico, i due ragazzi sono venuti su bene e il minore dei due, Louis, sta per trasferirsi a Parigi dov’è entrato alla Sorbona nella facoltà di scienze politiche. Fus, il maggiore, non ha preso nemmeno il diploma, non ha prospettive certe, eccelle nel gioco del pallone e poco altro. L’innesco drammaturgico arriva proprio dall’indefinitezza del presente di Fus, che inizia a frequentare una palestra popolare gestita da ambienti di estrema destra. Per Pierre, operaio ipersindacalizzato ed ex movimentista di sinistra, un colpo al cuore ferale che lo porta a interrogarsi sugli errori commessi durante il percorso educativo degli eredi. Tutto molto canonico quindi, all’apparenza? Sì, e l’assunto appare anche non tanto dissimile da quello di un film italiano presentato qualche anno fa proprio qui a Venezia, all’interno della Settimana Internazionale della Critica: Non odiare di Mauro Mancini, con Alessandro Gassman nel ruolo “paterno”. Ma qui il livello è ben diverso, e il merito è tutto (o quasi) di un pugno di scelte registiche indovinate, mentre lo script ad opera delle stesse sorelle Coulin soffre di più di un passaggio “problematico”. Nel momento di maggiore distanza tra Fus e il padre, uomini orgogliosi che non hanno il confessarsi a vicenda i propri sentimenti come modus operandi, la proiezione delle ombre sulle superfici li mostra sempre uniti, prospicienti, sostanzialmente inscindibili a partire dal patrimonio genetico. La frustrazione nei confronti di un futuro nebuloso e senza prospettive porta Fus tra le braccia della destra xenofoba, con la curva calcistica del Metz a fare da volano tra il ragazzo e la piccola minoranza di estremisti di destra che la popola.

Il “turning point” della narrazione avviene dopo alcuni violenti scontri tra questi ultimi e i ragazzi di parte opposta del centro sociale locale, dai quali Fus esce malmenato e letteralmente in fin di vita. Il padre naturalmente lo aiuta, lo supporta, lo accompagna nella durissima fase di riabilitazione, ma non opera alcuna denuncia: forse l’ideologia sopravanza la famiglia e il Nostro è quasi grato verso quelle botte che potrebbero distogliere il ragazzo da quelle frequentazioni, per lui, inaccettabili? Quell’inazione verrà scontata a caro prezzo, e la vendetta di Fus porterà quest’ultimo ad avere serissime complicazioni giudiziarie. E’ davvero (anche) colpa di Pierre? Educare d’imperio la prole alla propria visione del mondo, seppur ritenuta quella più giusta, può ottenere il risultato inverso? Le tematiche messe in campo sono queste, e gli snodi narrativi tendono a problematizzare sempre più i cascami di un’educazione tradizionale e, forse, non più al passo con il mondo che ci si ritrova ad affrontare ogni qualvolta si esce di casa, specie nella decisiva età di (tras)formazione tra i diciannove e i ventidue anni.
Oltre alle ombre, anche le mani esprimono sentimenti dove le parole non riescono più, e la regia si concentra spesso su questo dettaglio: mani che si torcono, che si stringono, che carezzano amorevolmente mentre l’oggetto dell’affetto dorme. Fus comincia ad esprimersi per slogan («sei con noi o contro di noi») e la sua radicalizzazione sembra procedere di pari passo con il completo abbandonarsi alla ferina aggressività, verso il mondo e la propria condizione umana e sociale; quando il padre lo segue nel luogo di incontro/palestra assiste ad un brutale scontro tra due uomini in gabbia, mentre intorno si schiuma e si incita alla violenza. L’ipersemplificazione di cui accennavamo all’inizio è palese in alcuni passaggi “simbolici”: mentre Fus s’improvvisa fabbro e costruisce un oggetto che poi si rivelerà decisivo per il suo destino, Pierre vede tutto attraverso un’incerata rossa, che deve superare per vedere bene cosa sta accadendo. Il filtro dell’ideologia, che infatti non riuscirà ad attraversare. Altro esempio è la schematica suddivisione in classi sociali (questa però forse più vicina all’esattezza): i ragazzi di paese persi nella xenofobia e nella colpevolizzazione “facile” per un destino di mera sussistenza, quelli studiosi che si emancipano, pur tra mille debiti e difficoltà, andando a studiare in città. Un’ode al merito che porta l’opera dalle parti di una funzione “educativa” che il cinema selezionato per i grandi festival dovrebbe travalicare e problematizzare con più forza. Ma non si può comunque rimanere emotivamente inerti di fronte al monologo di Lindon nel pre-finale, che va oltre la retorica e si assume le colpe di una generazione che, impegnata a lavorare e tramandare, si è completamente dimenticata di ascoltare. E anche il finale, con un abbraccio che in realtà esprime un’incolmabile distanza, chiude le fila della narrazione in maniera coerente e non scontata.
Ci sono due discorsi diversi da fare, dunque, in sede di valutazione: un film da consigliare senza timore a spettatori di ogni età, ma che nel Concorso principale sembra stonare un po’ per i  motivi che abbiamo sopraelencato. Noi comunque non dimenticheremo facilmente il volto dolente di Lindon al bancone del bar, perso nell’alcool e nei lancinanti dolori dell’esistenza, che si scaglia contro un borghese colletto bianco che lo stava canzonando. Ecco, in questo frammento c’è un’ultima traccia tematica sotto la cui luce si può rileggere tutto il resto: la presupponenza della sinistra borghese ha dimenticato tutti, operai amici e “avversari”, sommergendo tutto con uno sguardo insopportabilmente dall’alto in basso. Che siano proprio loro, e in chiusura si conceda anche a noi una semplificazione didascalica, i veri nemici del popolo?

Donato D’Elia  

“Jouer avec le feu” (2024)
110 min | Drama | Belgium / France
Regista Delphine Coulin, Muriel Coulin
Sceneggiatori Delphine Coulin, Muriel Coulin, Laurent Petitmangin
Attori principali Vincent Lindon, Sophie Guillemin, Benjamin Voisin
IMDb Rating N/A

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