Il personaggio mitico popolare contemporaneo per definizione è il supereroe fumettistico, e in particolare la sua deriva/versione cinematografica. L’ultimo decennio (per certi versi: l’ultimo ventennio) è stato dominato al botteghino dal genere supereroistico, che soprattutto con i film dell’universo narrativo condiviso Marvel è diventato sinonimo dello zeitgeist della cultura pop statunitense. Dall’illustrazione su pagina scritta all’immagine in movimento, tuttavia, queste figure imprendibili cambiano molto, e il mistero del potere, dell’identità, del simbolismo dietro la figura letteraria/allegoria dell’eroe spesso svanisce dietro il bisogno di connettere l’esperienza dello spettatore al contenuto del film, rendendo umani e identificabili in scrittura questi protagonisti troppo perfetti per essere veri. Ciò risulta rischioso alla credibilità del progetto e finisce spesso per svelare gli altarini ideologici subliminalmente nascosti, ma ormai manifesti, in questi progetti, come nel caso della campagna di vaccinazione promossa da Spiderman No Way Home (in cui Peter Parker ‘vaccina’ i cattivi invece di sconfiggerli), o ancora dei discorsi di politiche estere dei due film di Black Panther, che affrontano il razzismo e il neoliberismo. Nel caso Marvel, l’idea forte produttivamente è stata proprio quella dell’unificazione di tutti i film recentemente prodotti sono un unico ombrello omnicomprensivo, un singolo mondo in cui tutti si conoscono e soprattutto sono conoscibili da noi di fronte allo schermo – tuttavia così inficiando la coerenza interna dei film presi individualmente, dato il ridimensionamento della figura del regista: che sia un autore come Sam Raimi (riferendoci al suo Dr Strange) o Chloe Zhao (Eternals), o che sia un mestierante che vuole fare il botto come per esempio Peyton Reed (i film di Ant Man), la figura del “director” scompare nelle retrovie di una troupe composta da un numero di persone a cinque cifre, finendo per diventare solo una tra migliaia di figure dal potere decisionale in un progetto troppo più grande. Il risultato sovente è un film senza personalità, mera proposta di proprietà intellettuale decontestualizzata, film per divertire i fan dei fumetti, ormai diventati film per far sentire a proprio agio i fan degli altri film, senza uscire da binari precostruiti, senza tentare costruzioni narrativo-visive che sussistono indipendentemente, come potevano essere gli Spiderman di Raimi o, con tutti i loro difetti, i Batman di Chris Nolan. Già i suddetti Batman di Nolan, con i loro famigerati e succitati difetti, danno però un’idea della diversità che caratterizza i film prodotti dalla DC, principale competitor della Marvel sul mercato sia al cinema che su carta. DC era la casa editrice di comics predominante, prima che il genio di Stan Lee inventasse franchise come quelli dell’Uomo Ragno o Hulk, al punto che Marvel nella seconda metà del secolo scorso era reputata l’alternativa “pulp” a storie come quella di Superman, mito fondativo dell’eroe novecentesco americano. Ma se la Marvel ha fatto il passaggio “from pulp to pop” arrivando a produrre alcuni dei film (inutilmente) a budget più alto e con incassi più alti della storia del cinema, DC ha vissuto una parabola quasi opposta. Superman, dopo i film di Donner e Lester con Christopher Reeve, è diventato nell’immaginario collettivo un personaggio infilmabile, troppo eterno e potente per reggere il grande schermo e l’ipnosi che ne dovrebbe derivare… anche se Zack Snyder ha tentato disperatamente di dare a Clark Kent (e a Batman, e a Flash, e a Cyborg, etc.) una dignità mitica e un immaginario inavvicinabile, la maggior parte dei film DC soffrono di un difetto che la produzione cinematografica Marvel non ha: sono film scollegati, confusionari, incoerenti e caotici. Cercano di prendere sul serio la trama e l’eroismo dei personaggi, ma non troppo, perché sono pur sempre dei pazzi in calzamaglia. Il prossimo anno comincerà una nuova fase dei film DC, un tentativo di universo condiviso alla Marvel, e il tutto verrà gestito da James Gunn, ex-Marvel ed ex-Troma, una delle poche vere figure geniali ad aver lavorato dentro il genere, ma conoscendo il suo senso dell’umorismo potrebbe essere difficile che quest’idea iper-seriosa del personaggio fumettistico possa rimanere come la immaginiamo. Infatti, in compenso, tutti i progetti già avviati prima dell’assunzione di Gunn che non fanno parte del nuovo universo condiviso sono stati inseriti in una sorta di produzione ‘succursale’ del principale blocco DC chiamata “DC Elseword”, di cui fa parte Joker: Folie à Deux e di cui farà parte il prossimo The Batman di Matt Reeves con Pattinson – così facendo sparire dalla faccia della terra le ambizioni che aveva Snyder per una saga sulla Justice League anticipate nel suo inaspettatamente ottimo e famigerato Snyder Cut. E DC Elseworld, col senno di poi, è anche l’etichetta ideale per il primo film di Joker di Todd Phillips, che fu Leone d’oro a Venezia e portò a Joaquin Phoenix un Oscar, uno degli ‘unicum’ del genere supereroistico che più ha fatto discutere il genere con le sue implicazioni politiche ed estetiche.
Innanzitutto, Joker come personaggio è un antagonista, anzi, l’Antagonista per antonomasia nel genere, nemesi anarchica di Bruce Wayne/Batman, una scheggia impazzita nella realtà politica della storie in cui appare. Quando terrorista anarcopunk (nel Dark Knight nolaniano), quando cretino anticonformista coi tatuaggi in faccia (Suicide Squad di Ayer), è tra i villain più riconoscibili della narrativa contemporanea, al punto da essere stato preso come esempio persino in occasione di surreali attacchi terroristici che sembrano poter accadere solo nella nostra deragliata contemporaneità (la sparatoria avvenuta a una première di Dark Knight Rises; e si vociferava al Lido che qualche pazzo avrebbe potuto fare il remake di quella tragedia alle proiezioni stampa veneziane di Folie à Deux), e la sua personificazione “politica” ideata dal duo Phoenix/Phillips è riuscita nell’ardua impresa di convincere buona parte del pubblico, anche chi coi personaggi DC non ha nulla da spartire. Ideologicamente ambiguo e vittima del sistema che tenta di distruggere la società dall’interno con l’impulsività di un adolescente depresso, il Joker (personaggio) di Phoenix e Phillips è un caso psichiatrico, abusato dalla madre e maltrattato da Wayne Enterprises, pagliaccio di strada che ambisce alla stand up comedy, che ride per tic, e che si ribella con le idiosincrasie narcisiste di chi non ha paura di morire perché il mondo attorno a lui l’ha già ucciso. Le ragioni giuste lo portano alle azioni sbagliate, e le conseguenze delle sue azioni generano mostri, copycat, altri criminali che per andare contro una giustizia che di giusto non ha niente uccidono proprio gli Wayne, di fronte a Bruce, così creando l’eroe, il protagonista che si mette in contrasto al folle. Davide e Golia, ma che si scambiano a ogni incontro. Il primo Joker di Phillips era anche un’operazione spudoratamente cinefila, che prendeva a modello il cinema anni ’70: è girato in 70mm e cita esplicitamente dei capolavori della New Hollywood, come Fat City di Huston o Opening Night di Cassavetes, o soprattutto, in modo vistoso il Martin Scorsese (anche produttore esecutivo) di Taxi Driver e King of Comedy, così dando anche una risposta diretta alle dichiarazioni del regista di Toro Scatenato sui cinecomics, da lui definiti «più simili ai parchi divertimento che ai film per come io li ho conosciuti e li ho amati per tutta la mia vita. In ultima battuta, non credo che siano cinema». E difatti è un dramma psicologico universale quello del Joker rivisitato da Joker, che vive nell’ombra del suo franchise pur tentando di reinventarlo, ma riesce bene, col registro del thriller e la dialettica del film politico, a rifondare da capo l’antieroismo del suo personaggio. Negli Stati Uniti sull’orlo della guerra civile dell’epoca Trump e post-Trump, il Joker/Arthur Fleck di Phoenix/Phillips è diventato una figura facilmente fraintendibile, al contempo mostruosa degenerazione di istinti anarcoidi e idolo immaginario degli incel alt-right. Joker da film interessante è così diventato, sorprendendo anche i suoi autori, un oggetto quasi pericoloso. Ed è così che Folie à Deux entra a gamba tesa nel dibattito cercando di confermare e di negare quanto già dichiarato dal film precedente: è un sequel, è un reboot, è una parodia del primo che programmaticamente vuole distruggere quell’icona che aveva creato. Ancora una volta senza alcun bisogno di ricorrere a Batman (anzi, qui nessun Wayne è mai menzionato… ma c’è Harvey Dent, l’avvocato che nei fumetti e nei cavalieri oscuri nolaniani diventa Due Facce), ma mettendo al centro del tutto il rapporto con l’altro grande riflesso del Joker, Harley Quinn, amante, “partner in crime”, folle complice che solo di recente ha trovato una controparte cinematografica nell’interpretazione di Margot Robbie (nell’atroce Suicide Squad di Ayer, come protagonista in Birds of Prey, e poi ancora nel The Suicide Squad di Gunn, che esclusi i Batman di Burton potrebbe essere il miglior film DC), alla quale ora si aggiunge la Harlee Quinzel di Lady Gaga in Folie à Deux.
Il film comincia, purtroppo, con la sua sequenza migliore: un cortometraggio animato diretto da Sylvain Chomet (Appuntamento a Belleville, L’illusionista) che, imitando gli stilemi slapstick dell’animazione dei Looney Toones racconta il personaggio di Fleck per quello che è, uno psicopatico in costante lotta con la sua ombra, come fossero due personaggi diversi. Per quasi tutta la durata del film, la trama si interroga su che cosa sia questa ombra, questa doppiezza, raggiungendo un assioma interessante: Joker non è uno schizofrenico, non ha personalità multiple, non è una persona diversa e separata da Fleck quando compie i suoi crimini e omicidi. L’ombra, identificata col Joker (col mostro interiore, l’altro, il doppelganger di Fleck), è il lascito delle azioni – sia chiaro, non il senso di colpa, ma proprio l’impatto sull’altro delle azioni precedenti. Visti i fraintendimenti di cui è stato vittima il primo film, ha solo senso che, pur diventando più irreale e sbilenco, il sequel si interroghi proprio su cosa è rimasto, e su come riscriverne coordinate e conseguenze… Nello svolgersi della trama, quasi tutti i dialoghi concernono proprio l’identificazione del Joker, quasi mai sinonimo del corpo di Fleck/Phoenix, e ormai personificazione di una ribellione dalla vaga identità, appunto aperta ai malintesi. In una costante tensione verso quello che potrebbe succedere, e che non succede mai, Folie à Deux è ancora più del primo un film anti-supereroistico, complici anche le numerose sequenze musicali che, reinterpretando canzoni americane famose del passato (The Saints are marching in, That’s Life, Bewitched bothered and bewildered, etc), finiscono per mettere alla berlina il personaggio, dando al pubblico l’opposto di “what they want” e invece solo un immaginario stramboide, anticonformista, inutilmente romantico fino a diventare ridicolo. E Phillips e compagnia bella ne sono perfettamente consapevoli, al punto da prendere in giro lo spettatore con una serie di depistaggi, annunciando una serie di cose che non accadono, una rivolta in carcere, una rinascita terroristica di Fleck, la nascita di Due Facce, una grande storia d’amore che rimane sempre superficiale. Il problema non è il cosa, ma il come. Il genere musical, da sempre mezzo con cui far esplodere sullo schermo i sentimenti dei personaggi trasmutando la sospensione dell’incredulità, si esprime in scene che invece che coreografie dell’anima sembrano stacchetti cabarettistici decontestualizzati, freddi, vacui – non c’è collegamento tra la nevrosi dei personaggi e l’espressione dell’immateriale, è solo un collage estetico, peraltro che gira attorno a un processo che invece che protrarre la trama sembra concentrarsi autisticamente sugli eventi del primo film. Non volendo più fare un thriller vero e proprio, ma preferendo approfondire l’aspetto psicologico non colla sintassi della psicanalisi bensì con quella del simbolismo, il film finisce per fare quello che era interessante che il primo Joker non facesse, ovvero lavorare metatestualmente sui personaggi dei fumetti, invece che sulla realtà. Per molti versi, certo, la realtà è emblematica, e la conseguenza del fraintendimento simbolico del primo film è una cosa che, soprattutto in USA, si vede nelle interazioni reali e non certo solo quando siamo al buio di fronte a uno schermo. Ma permane la sensazione che la Mdp di Phillips faccia ricerca sui concetti senza interrogarsi sul contenuto dell’immagine filmata. È più un giocattolone, con cui vengono esibite la bellissima (ma non c’era alcun dubbio) voce di Lady Gaga e il sorprendente cantato di Phoenix, nella direzione di uno spettacolo che, tanto più nella sua società, è anche un patema. Quinn più che una compagna finisce per essere una costola del Joker, e non di Fleck, una sua reincarnazione, immersa nella psicosi del musical anche quando il protagonista appare sull’orlo di rinsavire. Come a dire che anche se il personaggio del film dovesse morire, la sua ombra gli sopravviverebbe, e continuerebbe, sul volto di un personaggio nuovo, in un passaggio del testimone infinito, un po’ gratuito ma senza dubbio triste fino a essere tragico. La “follia a due” è più uno “slogan a due”, una proposta spettacolare e pubblicitaria, una provocazione che rimane lì senza mai avere un ampio respiro. Una storia che parla di quello che rimane, senza che poi rimanga molto. Se i nostri eroi in questo tipo di cinema, i supereroi con le loro perfezioni e imperfezioni, spesso portano a storie parziali e monche, Folie à Deux ci fa intuire con lucidità che anche l’antieroe, la visione contraria al pensiero predominante, altro non è che una grande presa in giro che si mangia da sola. La prima volta una tragedia, la seconda volta una farsa.
Nicola Settis