JOKER (2019), di Todd Phillips
Il vero problema non è essere pazzi. Il vero problema è che la società pretende che i pazzi si comportino normalmente, subendo senza mai ribellarsi un’intera vita di soprusi, umiliazioni, violenze, emarginazioni e isolamenti. Perché tutto è soggettivo, ciò che diverte è soggettivo, ciò che fa orrore è soggettivo, ciò che addolora è soggettivo. Giusto e sbagliato sono soggettivi, bene e male sono soggettivi. Così come è soggettivo quel che si vuole vedere, il lato della barricata dal quale schierarsi, il punto di vista che si sceglie di adottare. Non è quasi in alcun modo un cinefumetto, il Joker drammatico, psicologico e profondamente politico di Todd Phillips presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2019. Certo, ciò che viene messo in scena è la genesi (forse) del celeberrimo e affascinante cattivo di Batman, ma la figura del Joker, letteralmente cucita su un Joaquin Phoenix straordinariamente sopra le righe per postura e per barlume spiritato di follia che emerge dal fondo degli occhi, non interessa in quanto criminale, non interessa in quanto antagonista dell’eroe, non interessa in quanto personaggio già presente, fra i fumetti, la serie animata, Jack Nicholson e Heath Ledger, in ogni immaginario. Importa come figura emblematica di alienato, come incarnazione della pazzia, come modello originale e vero e proprio paradigma della psicosi e del vaneggiamento, del disordine mentale e del disturbo di personalità. Importa in quanto Arthur Fleck, tragicomico simbolo vulnerabile e rivoluzionario del delirio schizofrenico, sottoproletario da sempre rifiutato, marginalizzato e discriminato dalla società nei suoi danni neuronali e nei suoi disagi, negli abusi da sempre subiti sin da bambino e nella deprimente esistenza della casa popolare con madre (probabilmente) altrettanto psicotica al seguito. Importa nella sua ingenuità quasi fanciullesca che sogna di diventare una stella della stand-up comedy, importa nel suo stato d’animo di costante e profondissimo scoramento. Specialmente quando sghignazza, pervaso dalla sua irrefrenabile risata patologica. Una risata isterica, che inizia come pianto e che diventerà sempre più angoscia, agonia, profondissimo dolore. Una risata intimamente ambigua, come del resto è programmaticamente ambiguo tutto Joker, profondamente scorsesiano e costantemente sospeso fra realtà e allucinazione, fra vissuto e sognato, fra verità e visione psicotica di una mente instabile, portata come una pentola a pressione al definitivo emergere ed esplodere del suo squilibrio spietato, violento, claustrofobico e atterrente nella sua assoluta e brutale lucidità. Un sostanziale e paradossale passaggio da bambino a uomo, da psicotico a psichiatrico, da represso ad assassino, dalla mano destra a quella sinistra, da Arthur a Joker, per rendersi conto di esistere e per trovare il modo di dimostrarlo alla gente indossando una maschera (da clown) mai così tragica, creata e poi subita da quella violenza di Gotham che poi è la violenza di tutto il mondo. In un film sorprendentemente militante, che come un novello Taxi Driver in sostanza ribalta il bene e il male trasformando l’ascesa del Joker in una vera e propria lotta di classe, i poveri contro i ricchi, il popolo contro il capitalismo, i lavoratori più sfruttati e calpestati contro l’ipocrisia del miliardario (mai realmente) filantropo Thomas Wayne, sorta di archetipico antesignano di Donald Trump la cui morte violenta, si sa, sarà la scintilla per fare del suo rampollo Bruce quel vendicatore notturno (e da sempre un po’ fascistello con il suo maggiordomo e la sua potenza industriale) travestito da Uomo Pipistrello.
«Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita», scrive sin da subito Arthur fra i suoi appunti, dopo aver subito l’ennesima aggressione da parte di un branco di ragazzi durante il suo lavoro, sottopagato e deriso pure dai colleghi a causa dei suoi disagi, come pagliaccio pubblicitario. Costretto, con le scarpe lunghe che daranno vita a più d’uno sketch slapstick ispirato direttamente al vagabondo di Charlot, con la parrucca e con il trucco sul viso, a sorridere sempre nella sua amarezza, nel suo dolore, nella sua depressione, fra i cumuli di spazzatura e i ratti che gli sfrecciano intorno per le strade. Per lo meno fino a quando non sarà lui stesso a cancellare la parte centrale del cartello con cui la compagnia ricorda la propria principale regola a ogni dipendente, «Don’t forget to smile», trasformandolo in un lapidario «Don’t smile». Perso nei suoi sogni catodici che riportano subito alla mente il Rupert Pupkin ossessionato da Jerry Langford in Re per una notte – e non è certo un caso che, in un ribaltamento dei ruoli rispetto al film di Martin Scorsese dell’83, sia proprio “il fan” Robert De Niro a interpretare lo stand up comedian Murray Franklin evidente riedizione di quello che fu il personaggio di Jerry Lewis –, Arthur fantastica su una carriera come attore comico, si illude di entrare a far parte della trasmissione che segue assiduamente in TV, o per lo meno del teatrino dei debuttanti in cui la Gotham City più sporca e squallida trascorre le sue serate. Ma il suo (tragico) umorismo – emblematica la sequenza in cui, spettatore di un altrui monologo, le sue risate sono esattamente opposte a quelle del resto del pubblico, pronte a esplodere fragorose sulle frasi di raccordo per poi zittirsi impassibili mentre tutti gli altri ridono alle battute – è ben differente rispetto a quello del resto del mondo. Il suo umorismo malato e schizoide è l’eliminazione del ventre materno come necessaria recisione di un cordone ombelicale da soffocarsi con un cuscino. Arthur è convinto di essere nato per far ridere, ma non ha mai provato nemmeno un istante di vera gioia in tutta la sua vita, al massimo qualche allucinazione schizoide di successo o di un amore impossibile. E di certo non sarà l’appartamento della bella vicina il suo rifugio dalla società, dalla malattia mentale e da se stesso. Un uomo visto come fastidioso anche quando vuole solo giocare coi bambini, deriso e umiliato al lavoro, pestato in strada e sui mezzi di trasporto, licenziato in tronco quando gli cade la pistola fra i bimbi nel bel mezzo di un numero da clown, malamente scacciato da Alfred nel momento in cui si avvicina oltre il cancello al piccolo Bruce Wayne, fallito nella sua unica occasione sul palco e poi pubblicamente dileggiato pure dal suo idolo televisivo, fino a essere invitato in trasmissione con lo scopo di deriderlo ancor più forte. Proprio lui, l’uomo che ride contro il suo stato d’animo come nevrotica reazione all’imbarazzo e alla paura, impossibilitato dai danni neurologici a fermare se stesso. Un uomo che nemmeno potrà mai sapere se hanno ragione le carte (ovviamente falsificabili da ogni Potere) che lo certificano come adottato oppure se ha ragione quella madre pazza e a tratti terrorizzata da suo figlio (con evidente omaggio a Shining e di conseguenza a Il carretto fantasma nel dialogo ai due lati della porta del bagno) che sostiene sia il figlio segreto di Thomas Wayne. Il quale, nel dubbio, nei bagni del cinema durante una proiezione dei Tempi Moderni chapliniani a cui così evidentemente Phoenix deve la sua camminata e la sua postura ingobbita, lo allontana con un altro pugno sulla faccia.
Sorta di prequel anche stilistico (le panoramiche dall’elicottero, le lente carrellate a stringere i primissimi piani, le profondità di campo) della trilogia nolaniana su Il cavaliere oscuro, con ben chiaro in testa sia il crepuscolare del Logan ultima apparizione di Wolverine sia l’impianto teorico shyamalaniano della trilogia di Unbraekable secondo il quale senza il “cattivo” (sempre ammesso che sia realmente “cattivo”, come suggerito dalla sfumatura finale di Glass) non può nascere il “buono”, Joker è la progressiva costruzione di un personaggio elaborato da anni e anni di disagi e soprusi, di prepotenze e di frustrazioni, intelligente riflessione sia sul lavoro su se stesso del personaggio Arthur/Joker sia sul doppio lavoro di Phoenix per incarnarne la metamorfosi, portando alle estreme conseguenze il suo volto segnato e quella fisicità un po’ deforme già di The Master. Fino a fare del Joker nascente molto più un (anti)eroe proletario quasi per caso che un vero e proprio antagonista, un (anti)paladino (in)consapevole degli emarginati e delle vittime del sistema, ma prima di tutto un insicuro timido e ingenuo, a cui la voce diventa fanciullesca ogni volta che parla della sua mamma così psicologicamente ingombrante. Un empatico poveraccio vulnerabile e rintronato dagli psicofarmaci, i cui problemi mentali vengono amplificati da Gotham (o dall’America trumpiana, o più in generale dalla società del Capitale) e dai suoi abitanti fino al deflagrare più violento. Un debole che dalla paura e dalla necessità di difendersi scopre il piacere perverso dell’omicidio e libera definitivamente la sua follia, il suo «vero io» che rideva a crepapelle nei momenti meno opportuni. Mentre inevitabilmente il pubblico soffre con lui, soffre per lui, e senza indecisione tifa per lui quando uccide i suoi aggressori. Vedendo in lui la vittima che si ribella, dalla claustrofobia asfissiante della vita di Arthur alla furia vendicatrice, ma mai cieca, contro quella società del Capitale che sfrutta, rifiuta e ghettizza con una falsa promessa e con un sorriso sfacciatamente ipocrita. Da quel grilletto tirato per la prima volta durante l’ennesimo pestaggio alla vendetta e all’autodeterminazione del ben preciso piano criminale del prefinale, passando per un’esplosione di furiosa e cieca violenza contro il più vessatorio fra i conoscenti, quello di Joker è un crescendo rossiniano che abbatte uno dopo l’altro gli oppressori, ma lascia totalmente libero di andare quell’unico (e pure comprensibilmente scioccato) collega, nano e per questo a sua volta tiranneggiato e deriso, che aveva sempre trattato la vittima Arthur con umanità. Tanto che, mentre il capitalismo e il Potere cercano e pre-condannano mediaticamente quell’uomo vestito da pagliaccio che ha sparato in metropolitana a «tre bravissimi ragazzi» altoborghesi che nel frattempo lo stavano prendendo a calci in pancia solo per il gusto classista e razzista di farlo, il proletariato si renderà subito conto di chi avesse ragione, di quali fossero le reali circostanze, di chi fosse il vero nemico sociale da combattere, ed ergendo il solitario e folle ribellarsi di Arthur a scintilla che innesca la rivoluzione inizierà a manifestare sempre più violentemente – forse con un pensiero degli sceneggiatori ai Gilet Gialli, oppure è solo un caso – indossando maschere da clown per sovvertire quella società inumana che da sempre li schiaccia. Fino a quel mare di pugni al cielo che accoglie il rialzarsi in piedi di Joker, liberato dal popolo dopo la confessione televisiva, dopo l’omicidio in diretta come la più spettacolare delle vendette e dopo l’inevitabile arresto. Stretto da Phillips nei primi piani e nelle carrellate del suo percorso da vittima a giustiziere, da oppresso a simbolo stesso della ribellione, dell’emancipazione e della libertà, Arthur/Joker è il punto di innesco, è il detonatore, è la repressione sociale che diventa resistenza e quindi contrattacco, rabbia, violenza, rivoluzione contro il sistema. Criminale? Forse in futuro. O forse mai. O ancora, più semplicemente: forse no. Perché forse è tutto un sogno, forse è tutto l’ennesimo (ma mai realmente ultimo) delirio. Ambiguo come lo è la malattia mentale, come la psicosi, come la schizofrenia. Ambiguo come possono essere ambigui il divertente e il tragico, il buono e il cattivo, il bene e il male: dipende dal punto di vista, dipende da quanta follia si cela dietro a quelle pupille che guardano, dipende da quanto è lungo il corridoio e dipende da chi inseguirà chi, fra macchie di sangue anch’esse forse solo immaginate e il bianco dei drughi di Arancia Meccanica in forma di divisa ospedaliera. Quello che realmente conta per il Joker, nella testa come in strada, è trasformare anche la vita più tragica in personale commedia. È ribaltare tutto, la condizione mentale, la condizione sociale, la ragione e il torto. A costo di smettere di prendere le medicine, di colorarsi i capelli di verde, di ritrovarsi in mezzo alla folla in rivolta. Magari senza mai essere uscito dal manicomio, dal suo personalissimo mondo tutto di ribaltamenti e allucinazioni. Chissà.
Marco Romagna