JOÃO BÉNARD DA COSTA-OUTROS AMARÃO AS COISAS QUE EU AMEI (2014), di Manuel Mozos
“Se invocamos a memória, é para nos sentirmos mais acompanhados, quando sabemos que ela não é compartilhada por mais ninguém. Não há nada de mais solitário do que a memória. […] Não há nada pior que ter razão e não poder provar, senão com o mais subjectivo dos argumentos: a memória solitária.”
João Bénard da Costa
Manuel Mozos è sempre sull’eterno limite tra narrazione ed immagine in un insieme di presenza / assenza tremendamente evocativa, quasi un’invocazione costante al fotogramma che possa diventare memoria fisica e speculare del reale. Anche oggi, in un Portogallo aggrappato eternamente alla sua identità ma in continua crisi economica e sociale, laddove la stessa cultura pare debba essere smantellata; e proprio ad uno di quegli eroi che fino all’ultimo giorno della propria vita ha lottato intensamente, ha resistito sulla soglia dell’ultimo brandello dell’immagine, della vita. João Bénard da Costa è (stata) una figura mistica e visionaria come poche che lotta su rovine abbandonate, attraversando le mancanze stesse del cinema, ancora oggi tra la sua assenza fisica e la sua presenza spirituale. Ma lo straordinario lavoro di Mozos in questo film (che è estremamente riduttivo definire documentario) è quello sulla materia, il trasformare quella assenza in una presenza, che il piccolo/grandissimo miracolo proprio solo del cinema, con in quella (in)finitezza assoluta del Dreyer – tra Ordet e Gertrud – che riaffiora.
Da Costa è stato il direttore della Cinemateca Portuguesa fino alla morte, una figura solo forse paragonabile alla leggenda di Langlois, ed è proprio così che Mozos ha deciso di disegnare la sua figura, lasciandola nell’ombra, definendone i contorni umani e la natura visionaria. Nulla è didattico ed esplicativo, nulla è testimoniato e nessuna parola definisce un immagine. Ci sono dei piccoli e grandi percorsi, degli affluenti nella vita stessa di da Costa; documenti, filmati, luoghi. L’ufficio disperso di fogli, progetti mai realizzati, sogni in cassetti pieni di polvere che si infrangono sulle scogliere della storia di un paese sempre più complesso. Poi la moviola, lo spazio analogico dell’immagine in cui corre avanti e indietro Johnny Guitar, in maniera ossessiva e quasi imperscrutabile, come scrigno di segreti a cui trovare mai una definitiva lettura. Infine le lunghissime marine a perdita d’occhio di Arrábida, con quelle onde lente e calme che sembrano accogliere e ricoprire tutto, sedare e spezzare ogni frammento di possibile, ogni momento nell’atto del suo perdersi. Poi gli scritti di Da Costa, guardare il cinema per cercare la vita, parole indeterminate fatte di astrazioni, di memoria condensata e profondissimo amore. Ogni riflessione è già passata, proprio come quella moviola e l’ossessione del riavvolger(si).
In fondo è l’immagine a definire la parola, quella di Dreyer, di Ray e soprattutto di De Oliveira. Il gigante evocato in qualsiasi inquadratura che può disegnare morte e salvezza allo stesso tempo, perché il cinema nella sua magia inspiegabile continua ad essere costantemente miracolo e memoria, che si rincorrono. E così, per un momento, l’oblio è scongiurato e il passato è solo amore per i film, la pittura, le parole, il Popolo, non è altro che la memoria stessa dell’amore che Da Costa ha vissuto (e che “gli altri ameranno”). E così anche Mozos lo ama e ci ama, nel flusso continuo del tempo che ci divora continuerà ad interrogare le immagini, la figura di José Régio (altro grandissimo amante di Ordet) e di quelli che furono i pionieri del cinema portoghese. Tutto torna e pare fermarsi, nella polvere del magazzino di una cineteca, nell’ossessiva ricerca reiterata di un momento che possa esistere anche fuori da una pellicola. E tutto il resto forse è inutile, tutto scomparirà, se non la corrispondenza di tutti quei sensi che l’amore può evocare ed il cinema può far (ri)vivere.
Erik Negro