JIM & ANDY: THE GREAT BEYOND – Featuring a Very Special Contractually Obligated Mention of Tony Clifton (2017), di Chris Smith
Originariamente pubblicato su Film Parlato.
I’m breaking through / I’m bending spoons / I’m keeping flowers in full bloom /I’m looking for answers from the great beyond
R.E.M, Michael Stipe, The Great Beyond.
Durante il primo giorno di riprese di Man on the Moon, Miloš Forman chiama Jim Carrey per istruzioni sul film imminente; la risposta laconica è che su quel set non vede nessuno di nome Jim.
Vi siete mai chiesti se ci sia qualcosa di cui non si possa scrivere? Io sì, davanti a questo foglio bianco, ogni volta che ho cercato di riempirlo con qualche parola, senza successo alcuno. Come se attorno a me non ci fosse nessuna frase, vicino al vuoto che avrebbe potuto provare Forman su quel set. Il primo significato di tutto questo, senza bisogno di significante, l’ho proprio trovato in quella domanda, o meglio nell’attesa di quella risposta possibile dal grande buio delle cose. Chissà cosa potrebbe dire Andy (Kaufman) di tutto questo vociare, chissà se ha davvero raggiunto la luna e se là si stia divertendo. Sicuramente Tony Clifton sarà proprio lì a sfotterlo col suo ghigno prorompente, mentre Jim è ancora qui, a galleggiare su quell’interrogativo sperso tra fiori e cucchiai, come tutti noi. O forse no. Ma in fondo cosa importa, c’è qualche differenza? Per chi tenta qui di scrivere no, perché nella metamorfosi affascinante quanto inquietante di Jim su quel set ci siamo tutti noi, perché di mezzo ci sta il senso più profondo e sensibile dell’esistere, della maschera, dell’esporsi, perché quel nervo scoperto del nostro appartenere a questo pianeta fa sempre male, terribilmente male. Probabilmente Jim tutto questo non lo sapeva quando ha intrapreso con coraggio un viaggio straordinario quanto rischiosissimo, un viaggio dal quale molto probabilmente non è mai riuscito a tornare, un viaggio che nessuno di noi verosimilmente è disposto a intraprendere. Un viaggio nel quale nessuno, nel suo intimo, può sapere realmente cosa sia vero o meno, l’importante è che le nostre emozioni siano davvero reali. Tutto il resto, in Jim & Andy: The Great Beyond – Featuring a Very Special Contractually Obligated Mention of Tony Clifton, straordinario film documentario realizzato da Chris Smith presentato a settembre all’ultima Mostra di Venezia e ora in programmazione sul colosso Netflix, è solo un attraversare il tempo in attesa di quel grande buio delle cose, naufragando fra parole e simboli, cercando sprazzi, vivendo la “possessione”, il “ruolo”, le “personalità”, l’attore e gli attori, l’autore e gli autori, l’unicità artistica e (multi)umana.
Su quel set tutti avevano compreso che stava succedendo qualcosa di molto strano. Da Danny DeVito a Paul Giamatti, dall’ex ragazza Lynne Margulies allo stesso Bob Zmuda con cui Andy scriveva i testi, dal wrestler Jerry Lawler a Courtney Love che sarebbe dovuta essere la compagna di Andy nella “finzione”. Andy era tornato, sceso sulla terra, viveva con la sua famiglia e dialogava con il suo amico fraterno Stipe, interpretava Tony Clifton negli studios, in un’inquietante e imbarazzante confusione di personalità e situazioni. Il film diventa il backstage, il divertimento iniziale lascia spazio al dramma prima e alla commozione poi. Lo spettacolo alla Carnegie Hall replicato in ogni dettaglio, l’incontro di wrestling con le botte per davvero, la tragicomica disperazione di un film che non pare veder la luce. Andy si ammala gravemente, perde i capelli, vaga in sedia a rotelle. Forman con la sua troupe passa dal panico alle lacrime. Sarà proprio Clifton a salutare la fine delle riprese, in un abbraccio commosso, che toglie il fiato proprio quando Andy se ne va per sempre, un’altra volta. Di Jim intanto nessuna traccia, come se non fosse mai esistito. Quella situazione, che per Andy poteva essere un tentativo estremo e continuo di rompere i possibili ponti della comunicazione e di riflettere sul paradosso di un’assurdità dialettica continua, si era portata via Jim. Carrey dirà oggi che non ha mai puntato a far ridere la gente, ma a non farla pensare, così facendo però un giorno si sarebbe accorto di assorbire il pensiero di tutta quella gente – e, tristemente, il parallelismo con la deriva suicida di Robin Williams è più che mai vivo. Lo stesso valeva per Andy, e quel suo non (far) ridere per impegno ma per identità (e necessità, quasi liberatoria). Un’esperienza unica e drammatica, che di comico può solo avere l’apparenza, una distanza incolmabile tra la rappresentazione automatica e la reazione, nel rapporto continuo tra la percezione del reale e le traiettorie dell’inconscio. Jim è nato lo stesso giorno di Andy, attraversandolo come un fantasma ossessivo, e senza dubbio una parte della sua sensibilità è morta lì, su quel set, omaggiato addirittura da Tony in una doppia possessione senza vie d’uscita. Alla presentazione del film Jim ricompare, svuotato da tutto, senza vita né identità. Ha guardato l’oblìo, camminandone sul limite e oltrepassandolo fino a una folle mimesi spirituale apparentemente incomprensibile, al punto che molti affermano addirittura che Carrey non sia mai esistito, ma che si tratti in realtà dell’ultimo e definitivo colpo di scena dello stesso Kaufman. Nel suo racconto a posteriori, estremamente provvisorio e frammentario, pare quasi non ricordare quell’esperienza di iconoclastia dello schermo, del rapporto con un pubblico possibile così come dello spazio mai così labile e fluido tra il set ed il quotidiano. Una relatività assoluta e quasi spaventosa del reale, ma così terribilmente “vera”, tangibile, straordinariamente vitale.
Pensare di essere davanti a una camera dal tempo di esposizione infinito così da far ri-apparire un’immagine dalle tenebre, un’anima dall’oblio, una vita dalla morte. Jim quel film l’aveva nel destino, e non poteva in nessun modo sfuggirgli. Andy lo vedeva allo specchio, l’avrebbe incontrato dentro se stesso, come un fantasma materico e ingombrante che tutte le regole rifiuta. Jim era stato Andy, con una semplicità disarmante, non sfidando le regole dell’interpretazione ma negandole completamente. Infatti, come la personalità di Forman scompare dietro a quella di Kaufman, quella di Smith scompare dietro a quella di Carrey, e senza dubbio quella di chi vede viene a sua volta inglobata verso un territorio sconosciuto, e dunque straordinariamente inesplorabile. Come queste parole, che potrebbero benissimo non essere mai state scritte, anche se voi apparentemente ora le state leggendo, frutto di un’altra mimesi apparente tra l’esserci e l’esserci stato. Questo film è uno dei lavori più importanti e potenti sul cinema visti nel nuovo millennio, proprio per quello che non vediamo, per la sensazione di smarrimento che ci avvolge dolcemente ogni senso della percezione come della comprensione. In conferenza stampa Carrey affermerà: «Io credo che non ci sia un me e so di non avere un sé. Noi non siamo un ego, ma un insieme di idee che ci etichettano. In realtà non esistiamo, è come se fossimo un braccialetto con un insieme di ciondoli che sono le idee che ci etichettano.» Ecco, la risposta forse, quella con cui guardiamo il grande vuoto, la nuda identità, scarna e pulsante, riflessa nella presenza di ciò che già non (ci) appartiene più e di cui almeno vogliamo mantenere un’impronta. Perché stare al cinema è innanzitutto lottare e dialogare con un concetto di identità, di definizione dell’essere in potenza e in relazione al nostro posto nel mondo (anche lo stesso luogo cinema, in un certo senso). L’immanenza di ogni più piccola verità e l’assoluto di ogni più piccola finitezza siamo noi, qualsiasi cosa esso possa significare, aggrappati costantemente a un amore che fugge per la strada. Dopo tutte queste parole sono sempre più convinto che esistano cose su cui non si possa scrivere, ma l’averle scritte mi fa sognare che sull’altro lato della luna, quello che mai potremo vedere, ci sia un Tony Clifton pronto a sbeffeggiarmi perché ho osato parlare di Andy Kaufman e di Jim Carrey. E se così fosse, sarebbe tutto molto bello. Con molta commozione e altrettanta gratitudine.
If you believed they put a man on the moon, man on the moon. / If you believe there’s nothing up my sleeve, then nothing is cool.
R.E.M, Michael Stipe, Man on the Moon
Erik Negro