JIA – THE FAMILY (2015), di Shumin Liu

Da un lato la senilità che avanza, fra reumatismi, malattie e figli che vivono in città lontane, dall’altro la Cina che inesorabilmente cambia. Attraverso le tradizioni, i rituali quotidiani, l’importanza fondamentale della cucina e del cibo, persino attraverso le ossessioni un po’ sciocche degli anziani. La Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2015 si concede ad una preapertura di sublime ridondanza, proponendo un romanzo fiume di 4 ore e 40 che scorrono placide annullando la percezione del tempo. Esordio del quarantunenne cinese di passaporto australiano Shumin Liu, Jia – The Family è una coraggiosa epopea interpretata da attori non professionisti e girata in 35mm, viaggio in una Cina occidentalizzata e sfacciatamente capitalista da parte di una coppia di anziani coniugi, tre figli ormai adulti sparsi per il Paese, due amatissimi nipoti che non si applicano a scuola e una vita di sacrifici alle spalle. Ma è anche un film sull’incomunicabilità generazionale, sui silenzi e sulle reticenze, abile a rifuggire la retorica passando attraverso la quantità di sale usata in cucina, la posizione degli spazzolini da denti, i coprisedili per il water, il riso, il pesce da pulire, un vecchio album di fotografie, i videogiochi ed una casa da ristrutturare.

The Family, partendo da una trama esile ma mai gracile, diventa ben presto una profonda cronaca familiare in grado di mettere a nudo emozioni e sentimenti dei personaggi, fra pagine di straziante umanità ed una reiterazione abitudinaria e malinconica dei gesti di ogni giorno capace di evidenziare da una parte tutta la loro stanchezza, dall’altra la loro profonda tenerezza. Shumin Liu segue i suoi personaggi con un rigore quasi monastico, fatto di lunghe inquadrature fisse, tempi e azioni dilatati, capaci di creare una realtà quasi parallela nella quale immergersi: il film-fiume si erge ad un ambizioso film-mondo, la finzione diventa realtà. La pulizia del riso, l’attesa davanti al bagno e i lunghi silenzi vengono spesso filmati attraverso porte aperte, con gli stipiti che a tratti sembrano abbracciare i personaggi, a tratti li soffocano in inquadrature claustrofobiche. Come la vita, che dà, toglie e sempre sorprende. Liu e Deng sono una coppia comune: sposati da cinquant’anni, ormai in pensione, la figlia maggiore con nipote tornata temporaneamente a casa loro dopo il divorzio. Decidono di partire, andando a trovare gli altri due figli sposati e lontani, passando attraverso una Cina in rapida trasformazione. Una Cina fatta di container, corsi di inglese, giochi sul computer e classi sociali. Un Paese in rapida evoluzione, nel quale la coppia di anziani riallaccia rapporti forse impossibili ma profondamente sinceri, fra i reumatismi di lei e la malattia che lui vuole dignitosamente nascondere ai figli.

Fra le paure e le minacce della vecchiaia, la coppia viaggia e vive, a metà fra il Viaggio a Tokyo di Ozu e le ieratiche durate di Lav Diaz, pur senza possedere nemmeno un briciolo del simbolismo del regista filippino. Le dinamiche dei rapporti con figli, generi e nuore, i silenzi assordanti e le allusioni, i regali come per chiedere scusa, l’amarezza del tempo che passa, gli acciacchi e gli ospedali, contrapposti alle passeggiate coi nipoti, alla scelta dei materiali migliori per ristrutturare la casa e al ricordo sognante di quel primo sorriso da cui nacque la famiglia. The Family parla della famiglia, delle radici, della senilità, dei giovani, dei cambiamenti, della dignità e della malinconia. È un film estremamente interessante, compiuto quanto ambizioso, semplice nell’intreccio quanto profondamente umano, in grado di sorprendere ed incollare allo schermo, degna preapertura di quella che si preannuncia come la sezione più interessante di Venezia72. Rimane un telefono che suona nel bosco per una chiamata destinata a rimanere senza risposta, mentre un padre torna a casa.

Marco Romagna