JEUNESSE (2016), di Julien Samani
Paulo Branco è un produttore cinematografico portoghese e a Locarno il suo nome e il suo volto sono ben noti: da Ruiz a de Oliveira, da Schroeter alla Akerman, da Bartas a Assayas, da Wenders all’ultimo Żuławski, le sue case di produzioni (Gemini Film, Alfama Films, Madragoa Filmes e Clap Filmes) hanno portato una sequela di grandi film e l’hanno portato ad essere riconoscibile ovunque; tant’è che, prima della proiezione ufficiale di Jeunesse, Branco è stato applaudito più a lungo pure del regista Samani. Per alcuni, Branco è garanzia di capolavoro. Jeunesse, tuttavia, è un film da discutere e da attraversare con più sguardi, ed è assolutamente difettoso in entrambe le chiavi di lettura con cui il film può essere letto. Ma partiamo dall’abbozzata e stevensoniana trama, tratta dall’eponimo racconto di Joseph Conrad: il giovane bello e biondo Zico abbandona tutto, compreso il migliore amico e la ragazza, per diventare marinaio, salpando su un cargo che traffica a giro per il Mediterraneo, avendo come compagni di ciurma un cinese che sa solo il cinese, un anziano capitano, uno scorbutico secondino e l’africano Moctar, inizialmente minaccioso e poi progressivamente più amichevole nei confronti del protagonista.
A leggere il titolo, Jeunesse, ci riviene in mente la giovinezza dello Youth (2015) di Sorrentino; ma mentre ormai il regista italiano da Oscar è definitivamente un maestro nei titoli ironici, dallo spaesamento di This must be the place (2011) ai protagonisti vecchi appunto di Youth passando per lo sguardo ironico sul vuoto volgare de La grande bellezza (2013), il film di Samani è davvero un film sulla giovinezza. La nave in mezzo alla tempesta è la vita con tutte le sue sfide, tutte le sue problematiche; il capitano alla guida è un uomo all’antica, lontano da Zico, ma è colui che è responsabile più o meno direttamente del suo presente e del suo futuro. Moctar, con la sua ossessione per l’Italia tra canzoni di Mina, cartoline di Napoli e foto di Monica Vitti, è l’unico spiraglio di luce e speranza nel mondo di Zico, un braccio destro in un ambiente e in un mondo che lo disorientano, gli fanno venire il disgusto e lo spavento nei confronti di ciò che fa parte del mondo che lo circonda, del mondo che ama: il mare. Ma ci si allontana da una gratuita colpevolizzazione dell’essere umano, e lo si fa con la macrosequenza sublime della tempesta, uno degli apici dell’intrattenimento espressivo nel cinema di quest’anno, una scena formalmente ed emotivamente tesa a livelli sorprendenti, che giunge al proprio culmine con una specie di colpo di scena che ribalta definitivamente il processo di crescita di Zico. Dopo una scena così potente, tuttavia, il processo del personaggio di Zico diventa quello assolutamente prevedibile della riscoperta di sé e del ribaltamento dei ruoli: l’adolescenza che deve diventare maturità, lo sguattero che deve diventare capitano, ma capitano indipendente. Tra sequenze comunque significative e altre invece sostanzialmente inutili, Jeunesse, nella sua brevissima durata, dimostra il proprio povero ma intenso contenuto con una regia a volte movimentata e a volte fissa, che replica la sensazione dello stare in mare ma senza risultare mai nauseante. È come se fosse un controcampo “movimentato” della lettura della giovinezza in un altro film in concorso a Locarno quest’anno, ovvero Inimi Cicatrizate del rumeno Radu Jude, lungometraggio di inquadrature fisse in pellicola in cui la profondità di campo e l’elegante ripetizione di elementi ricorrenti (tra la fissità orizzontale dei letti e la perpendicolarità profonda delle finestre sul mare) dà un’idea di una giovinezza vissuta con fissità drammatica, una sorta di blocco nel presente, lento e inesorabile ma pieno di confusione mentale. Jeunesse ne è l’opposto: la confusione non c’è perché Zico accetta tutto e lo accetta subito, ma c’è movimento, c’è perdizione. E c’è anche vuoto pneumatico, paura gratuita, vicoli bui nelle strade del Portogallo che non sono però vicoli bui nel mondo e nella mente di Zico ma vicoli bui nel cinema, nell’immagine, nell’espressione. Vicoli bui che sono bui anche per il cinema stesso, perché in quei vicoli l’immagine non respira, non esce, Zico non vive e diventa una macchia.
La seconda lettura, meno banale ma anche meno calcolata, vede Jeunesse come un film sul mare. Il viaggio, il fluido, la riconnessione con la natura che diventa riconnessione con l’uomo ed accettazione dell’essere esseri umani. Zico non è un eroe romantico, è un giovane in balìa degli eventi e in balìa della natura e di un sogno anticonvenzionale. Gioca e scherza ascoltando musica elettronica (notevole colonna sonora simil-Cliff Martinez), poi si incupisce fino a raggiungere un’indipendenza triste che è un’indipendenza dagli altri, ma non dal mare che rimane lì, dietro, davanti e intorno a lui; come un sogno violento, che ritorna. Purtroppo Samani però non si concentra sull’aspetto sensoriale/elementale del mare, e anzi quello spazio non-spaziale che galleggia e si ripete sempre uguale rimane spesso come un fuori campo, un qualcosa che si dà per scontato che ci sia e che essendoci influenzi il pensiero dei personaggi. Ma in un film fatto sostanzialmente di umile e semplice emotività, quasi semplice poesia, non bastano i corpi ed è necessario, davvero, uno sguardo originale che vada oltre all’espressività inequivocabile di un temporale o a quella di un incendio. Samani, al suo primo film di finzione, ha prodotto dunque un’emotiva odissea di immagini che trova la sua raison d’être solo in qualche scena potente, che risulta troppo lungo nonostante non duri neanche un’ora e mezza.
Nicola Settis