Bruno Dumont, prima professore universitario di filosofia e poi regista, è sempre stato un iconoclasta nel panorama del cinema contemporaneo, interessato al cinema spirituale del ‘900 (in particolare ricchi i riferimenti a Bresson e Rossellini), ma ne è soprattutto un discussore. Il suo primo film, una “vita di Gesù” intitolato L’età inquieta (1997), partiva proprio da un simile presupposto, quello di prendere un qualcosa di già scritto e messo in dibattito per secoli (ovvero proprio la vita di Cristo, e in particolare la lettura di essa da parte di Hegel) distruggendo le certezze che può avere lo spettatore. Il titolo francese è proprio La vie de Jesus, ma il protagonista del film non è il Salvatore cristiano, bensì un ragazzetto provinciale francese, epilettico e razzista, che scorrazza per le strade con la propria gang in un mondo che sembra destinato solamente a generare disagio in lui – come in un viaggio spirituale verso l’interno, che però usa di più una mappatura di tipo fisico e sessuale che dei punti di riferimento metafisici. La sua filmografia successiva è costituita principalmente da una serie di tentativi di riportare in vita concetti e mondi cari al regista ma sempre con sfumature diverse, quasi cercando di seppellire gli errori del passato: dalla de-struttura, Dumont passa alla ri-scrittura, e ciò si nota particolarmente nel finale liberatorio e profondissimo di L’umanità (1999), nel lavoro religioso sullo sguardo che si dipana per tutta la durata di Hadewjich (2009) e nell’amplesso esorcizzante che fa da sequenza chiave nel suo film forse più complesso e infernale, Hors Satan (2011). Portando anche tematiche socio-politicamente importanti come la xenofobia all’interno di un ingranaggio dal linguaggio perfettamente in bilico tra l’etereo, l’esoterico e l’erotico, Dumont costruisce tendenzialmente storie su piccoli personaggi chiusi nella gabbia noumenica delle loro grandi crisi, come aprendo porte per altri mondi e altre possibilità, anche solo con uno sguardo o uno stacco di montaggio, dando spazio alle necessità insite nella psiche di un ‘homo’ generalizzato, non unico, ma parte di un tutt’uno in cui ritrovare una collocazione. La mini-serie in 4 puntate P’tit Quinquin (2014) è stato lo spartiacque della sua filmografia, il momento del cambiamento definitivo, attraverso le indagini su un misterioso e irrisolvibile intrigo legato a una serie di violenze compiute in una cittadina campagnola del nord della Francia, abitata principalmente da sottoproletari pasoliniani, stupidi ma umanissimi. La svolta stilistica non è solo nei ritmi, decisamente più accomodanti che nelle opere precedenti di Dumont nonostante rimangano anticonvenzionali per la media dell’intrattenimento televisivo, ma soprattutto nel tono, qui più grottesco, quasi comico o Twin Peaks-iano. Il successivo Ma Loute (2016) è stato un passo parzialmente falso sotto certi punti di vista, poiché indietreggia rispetto alla rivoluzione interna, comunque straniante, di P’tit Quinquin spostandosi nell’ambito di un brutale cinema cannibale, buñueliano e anti-borghese, posando però troppo poco spesso lo sguardo sulle ambiguità semantiche e di sguardo che Dumont ha reso principale caratteristica del suo cinema, facendo prevalere invece un citazionismo tra Fellini e lo slapstick che raramente colpisce a segno da un punto di vista emotivo – tranne forse che in un finale che sovrappone il delirio à la Buster Keaton a un campo-controcampo profondamente lirico, disperato, senza speranza.
A Cannes, alla Quinzaine des Réalisateurs di quest’anno, è stato presentato l’ultimo sforzo del regista, Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, un film decisamente atipico per Dumont sin dalla sinossi: un musical sull’infanzia e l’adolescenza di Giovanna d’Arco, con musiche e canzoni composte da Igorrr, nome d’arte di Gautier Serre. Serre, classe ’84, è un musicista la cui produzione tendenzialmente è sempre al limite tra geniale e aberrante, tra composizioni noise dal sapore heavy metal e riferimenti più classici e romantici, tra beat breakcore distorti come quelli di Venetian Snares e melodie deliranti, simili quasi a danze paesane. Nonostante sia facile, e forse obbligatorio, avere perplessità sulle capacità musicali di Igorrr, per qualche mistero della natura (o del cinema stesso) i suoi brani si mischiano alla perfezione con le immagini di Dumont, ma questo sposalizio tra immagini non è fondato su un’armonia, in cui l’occhio e l’orecchio percepiscono la stessa cosa, bensì su di una discordanza talmente plateale da destabilizzare. In un film più che mai anti-scenografico, solamente casto nel presentare ambientazioni naturalistiche e campagnole prive di qualsiasi traccia della presenza dell’uomo contemporaneo, l’aspetto “moderno” della complessa vicenda della ribelle Giovanna d’Arco è sottolineato proprio dall’unione impossibile di leggiadria e violenza, come in una sorta di viaggio verso i limiti di cos’è il significato e cos’è il significante. Difatti, l’effetto straniante creato dalle musiche, comprese voci stonate, rap e movimenti di danza che vanno dal classico ‘headbanging’ metallaro al più recente ‘dabbing’, non è solamente una mossa eretica per dimostrare un’ipotetica modernità del personaggio – in tal caso sarebbe un pretesto banale, utilitaristico, lontano da quello che interessa, davvero, a Dumont. Jeannette è un anti-musical, come lo furono in passato, per motivi diversi, anche film come All That Jazz (1979) e soprattutto Dancer in the Dark (2000); e lo è perché usa la struttura del musical ma lascia in decomposizione l’aspetto della meraviglia pirotecnica e coreografica che è tradizionalmente il principale fattore nella strutturazione registica del genere. Le coreografie ci sono, ma sono ripetitive e ossessive su movimenti che comunque rimangono tristi, marcescenti, cadaverici, senza che l’esplosione di vitalità si esprima, se non attraverso una breve sequenza con dissolvenza, nella quale Giovanna adolescente sembra quasi ribellarsi attraverso il canto e attraverso il legame con la fede. Anzi, i movimenti corporei (battiti di piedi, teste che vanno su e giù, braccia che si attorcigliano) sono perfettamente udibili sotto la musica, tanto da aiutare a percepire il plateale patetismo dell’atto musicale di per sé, non esorcizzante e liberatorio, bensì semplicemente atto a dimostrare una parzialità simbolica, una necessità d’espressione fuori dai limiti e dagli schemi dello schermo. Se Hadewjich e P’tit Quinquin si interrogavano sul terrorismo islamico e sul clima politico xenofobo della Francia odierna, Jeannette si interroga non tanto sui fenomeni interni del contemporaneo quanto sui simboli e sul loro decadimento.
Del resto, Giovanna d’Arco, come dimostra in maniera molto diversa pure Nocturama (2016) di Bonello, è forse il simbolo francese per eccellenza, paragonabile probabilmente solo a Luigi XIV e a Napoleone – entrambi figure storiche che hanno comunque avuto recenti rappresentazioni iconiche e autoriali di grande profondità nei film rispettivamente di Serra (La morte di Luigi XIV, 2016) e di Sokurov (Francofonia, 2015). Ma Giovanna d’Arco è anche una figura importante da un punto di vista cinematografico, un simbolo proprio di quel cinema gnostico a cui Dumont è legato, a partire dalla Passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer, uno dei più grandi capolavori della Settima Arte, e dal meno bello ma comunque importantissimo Processo di Giovanna d’Arco (1962) di Bresson. Entrambi i film, però, si concentravano su un momento storico preciso: processo e condanna a morte. Dumont, scavando nell’infanzia e dunque negli elementi pregressi dai quali è poi scaturita la crisi spirituale che ha portato Giovanna al rogo, evidenzia che la necessità del regista è quella proprio di tornare indietro, alle origini del simbolo, e che sta in ciò la circoscrizione di un discorso storiografico, non nella narrazione del momento storico ma nel decidere la presenza del momento storico e la compresenza tra fattori all’interno di esso. Peraltro, Dreyer complicava gli spazi attraverso insistiti primi piani, mentre Bresson cambiava i ruoli degli oggetti di scena, su tutti il palo su cui Giovanna d’Arco viene bruciata nel finale, privato di corpo, privato di memoria; da questo punto di vista, Dumont si concentra direttamente su un fattore esterno, che non ha niente a che vedere con ciò che appare nell’inquadratura: gli effettivi protagonisti di Jeannette sono la complessità della rappresentazione, la magia creata dal contrasto, la Francia odierna (che non tornerà mai a questo tipo di purezza forse perché non riesce a scardinare da sé l’assenza della purezza) e il grande assente, Dio; ovvero l’impossibilità pura di individuare il corporeo, il viaggio interiore trasposto attraverso un mondo esteriore, attraverso uno pseudo-mutismo del cielo che dà però al terreno lo spazio necessario per creare suoni, melodie, cacofonie, esponendosi alla libertà e alle possibilità di allontanarsi dai timori umani per i dissidi politici (gli inglesi). Tra l’amica del cuore che cammina simulando la camminata del ragno con la schiena rivolta verso il suolo, come la bambina de L’esorcista (1973), e una fuga verso una profondità di campo che è un qualcos’altro dettata da una colonna sonora di Igorrr finalmente solo strumentale, quasi liberandosi dalle voci, sin troppo umane, per lasciare spazio nella mente di Jeannette alla voce altra, quella divina, quella inesperibile attraverso il cinema, superiore alle faccende degli uomini e degli animali. E potrà così cominciare semplicemente un’altra avventura, per un paese o per il cinema, in cui le nuove proposte di nuove forme possono solamente cambiare ancora di più il percorso spirituale dell’immagine, sconfiggendone i limiti con l’artificiosità programmatica di un viaggio nel teatro-danza. Con uno sguardo in macchina, magari, atto a vedere qualcosa oltre quello che possiamo immaginare.
Nicola Settis