JE SUIS SIMONE – LA CONDITION OUVRIÈRE (2009), di Fabrizio Ferraro

Roberto Rossellini sosteneva che ogni movimento di macchina fosse un ben preciso atto etico e politico. Nelle sue carrellate stava un consapevole intervenire sulla distanza fra chi filma e chi è filmato, disvelando la presenza della macchina da presa come dichiarazione di presenza e vicinanza dello stesso autore, di soggettività del suo sguardo e della sua memoria, e al contempo di intenti, perché tutto in Rossellini, soprattutto la finzione, concorre a far emergere il vero, a osservare, a fotografare e a rappresentare la realtà nella sua più intima e profonda essenza. Il movimento di macchina è l’espressione di una verità visibile, in cui la tecnica, così come l’immaginazione, è solo una parte del linguaggio realista e mai deve prendere il sopravvento sulla contemplazione e sulla ricostruzione del vero. Allo stesso modo, quando nel 2009 per mettere in scena Je suis Simone Fabrizio Ferraro è tornato ai diari e a La condition ouvrière della filosofa e mistica francese Simone Weil – la cui personalità ai limiti di una santità laica era già stata per Rossellini l’ineguagliabile fonte di ispirazione su cui costruire l’Irene Gerard interpretata da Ingrid Bergman in Europa ’51 –, ha limitato i movimenti di macchina a una sola apertura alla ripresa a mano, a un paio di panoramiche “teatrali” e a pochi carrelli laterali, tutti con un senso ben preciso che è sempre etico e mai puramente estetico, secondo il quale i luoghi e il tempo acquistano progressiva profondità insieme ai testi sempre più calati nel mondo operaio della filosofa francese, sempre più stanca, sempre più sfruttata, ma anche sempre più consapevole. Le carrellate che procedono a fianco della protagonista mentre si reca al lavoro e poi a casa lungo la Senna, anzi, al di là di creare similitudini e contrasti fra le parole del ’34-’35 e il fine anni Duemila dello smantellamento della Renault sull’Île Seguin mentre Arti e scienze iniziavano a campeggiare quasi come una novella Hollywood sul nuovo quartiere residenziale in costruzione a Parigi sud, sono solo la parte necessariamente dinamica dell’assoluto rigore di una messa in scena per il resto ostentatamente ieratica, apertamente ispirata dal cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet che quattro anni prima, a loro volta, già avevano ripreso da Europa ’51 la panoramica in soggettiva di Ingrid Bergman per ripeterla e più volte dolorosamente aggiornarla nel loro Europa 2005 – 27 ottobre, dimostrazione che all’orrore e all’ingiustizia dell’uomo sull’uomo non c’è mai fine.
Quella di Ferraro, nella sua (non) recitazione statica e frontale, nelle sue inquadrature fisse in 4/3 e nel suo bianco e nero che mai verrà squarciato (a differenza che nel finale dell’ultimo Gli indesiderati d’Europa, proiettato insieme a questo lavoro a Trieste al Festival I Mille Occhi 2018 come in un ideale dittico) da una sola lama di colore, è una messa in scena affascinante e ipnotica, fatta dei luoghi in (non?) trasformazione che scorrono mentre le dolenti riflessioni di Simone Weil indicano chiaramente come lo sfruttamento dei padroni sui servi non sia mai cambiato e non cambierà mai. Ma anche come dalla dignità e dalla cultura al popolo si possa continuare per lo meno a sperare, a piegarsi quanto necessario ma non di più, a lavorare per vivere – magari sentendosi parte di un qualcosa che nasce dal lavoro collettivo – e non vivere per lavorare, ossessionati dalle migliaia di pezzi da torniare e pressare tutti identici in ogni turno fra macchinari sempre meno sicuri e drammatici incidenti sempre più frequenti. Sta tutto nel riportare la Rivoluzione a un accrescimento culturale, rifiutandone la retorica mendace e stereotipata di chi ne usa i linguaggi come foglia di fico dietro alla quale nascondere un nuovo potere temporale, economico, capitalista e reazionario. Sta tutto nel riprendere possesso dell’erudizione e della sua civiltà, sta tutto nel non rinunciare al lavoro intellettuale, sta tutto nel discernimento e nella consapevolezza, nel rifiutare e combattere ogni potere con la forza dell’intelletto e della dignità umana.

Ma andiamo per ordine. Prima di tutto, alla base del filmare l’impossibile e l’invisibile di Fabrizio Ferraro, c’è questa volta Simone Weil, ci sono le sue emicranie e le sue crisi esistenziali, ci sono le sue notti di scrittura compulsiva, c’è la sua avversione per le leggi umilianti del Capitale, c’è il suo lavoro manuale come anticamera inscindibile di quello intellettuale, ci sono le sue riflessioni filosofiche e profetiche sulla coscienza di classe e ci sono le sue decisioni di vita, che nel dicembre del ’34 la convinsero ad abbandonare l’insegnamento e gli studi per impiegarsi per otto mesi come operaia presso la Alshtom di Parigi, azienda elettrica di vecchie macchine arrugginite e di rigorose catene di montaggio. Il suo obiettivo, da marxista eterodossa con venature mistico-religiose e anarchiche che già l’avevano portata a litigare con Trotzkij (accusato in sostanza di far parte di uno Stato e quindi di un potere oppressivo) e che la porteranno in seguito, non curandosi della salute, all’attivismo partigiano dopo il quale, fra privazioni autoimposte e una tubercolosi mai curata, spegnersi a soli trentaquattro anni, era quello di provare sulla propria pelle la quotidianità degli operai, «bestie da soma» costrette a un’iperproduttività annichilente, spersonalizzante, quasi letale nella dignità spezzata e nello sfinimento di fine giornata che impedisce loro di pensare, e quindi, cartesianamente, di essere. Il lavoro, per Simone, diventa un sostanziale cilicio con cui espiare i peccati dell’umanità autoannullandosi alla ricerca di contatti umani e di sofferenze personali, mentre il cattolicesimo, da «oppio dei popoli» di un’ideologia marxista abbracciata dalla scettica e spirituale Weil con sempre minore fervore, prende la stessa forma – e al contempo la stessa necessità umana, ancestrale e ineludibile, al contrario dei «risentimenti» nietzchiani – della schiavitù lavorativa.
Fabrizio Ferraro, prima ancora che dal suo La condition ouvrière, parte dai suoi Cahiers, dalle sue note sparse, dai suoi appunti di ogni giorno di lavoro, dai suoi episodi di vita vissuta, per lasciare dialogare la sue parole con la contemporaneità e l’intertestualità, fra non-attori che non-recitano (magari teorizzando proprio in un film di parola come la parola sia «la distruzione del cinema in quanto esaltazione della fotografia») e la sincronia di una trasformazione dei luoghi che non potrà mai dissiparne i fantasmi, né le ripercussioni sul quotidiano. Sta proprio nella sospensione dell’incredulità il grimaldello con cui superare il significante del segno (della scrittura così come delle immagini) per giungere al significato, al senso filosofico, politico e umano del «periodo orribile» di Simone Weil, e da qui riflettersi nella contemporaneità degli sfruttamenti e delle ingiustizie di oggi. Come in una sorta di detour parallelo e profetico di Europa ’51, con quello stesso sguardo (e corpo) di Ingrid/Irene/Simone proteso verso gli ultimi, verso la crisi personale e della società, verso il lavoro in fabbrica, verso la realtà, il vero, l’ingiusto. Verso i macchinari, che Ferraro filma quasi come fossero cosa viva, simbolo di quel potere capitalista e oscuro che ostinatamente calpesta chi si ritrova suo sottoposto, oppure verso i corpi, immobili e composti, spersonalizzati e forzatamente inespressivi, a letto o in metro, su un pullman o a piedi per le strade, intenti a scrivere o a lavorare, arcuati sui tavoli o chini sulle macchine. La fabbrica, fatta di rumori ferrosi e di foglie che sbattono sui vetri ricoperti di polvere, diventa il set perfetto di un film di abbandono e lotta di classe, di schiavitù e di consapevolezze, di dieci ore di lavoro e di stanchezza annichilente, di mani e dita schiacciate e perse nelle presse e nelle frese, di emicranie e di diritti umani quotidianamente calpestati e spezzati, di migliaia di pezzi da fare a prescindere dalle condizioni di lavoro e dalle perdite di tempo, mentre le parole e l’intelligenza di Simone Weil innervano le immagini di sensi e di intuizioni, di filosofia e di propensione al martirio, di sofferenza e di dichiarazioni politiche. Nel ritmo – disumano – da tenere in fabbrica sta quello stesso eterno cantiere-mondo che non cambierà mai, quello studio degli spazi e dei luoghi che porta il cinema di Ferraro in giro per l’Europa e che lo contamina di pensatori, di viaggi, di silenzi, di attese, di fissità, di marce sui sentieri e di atti di pura resistenza. Rendendo, come in Rossellini, ogni movimento di macchina un ben preciso atto politico, etico e morale, un atto di profondissima dignità e consapevolezza, di recupero culturale, di sospensione (a)temporale come unico modo per non rimanere intrappolati nel passato. È questa la straordinarietà di un cinema unico e radicale, utopistico e profondo, ostinatamente indipendente e lontano da qualsivoglia compromesso, che trova qui quella che è forse la sua declinazione più riuscita e preziosa. Sempre alla ricerca dell’uomo, della cultura, della forza del Popolo. Dell’amore.

Marco Romagna