L’UFFICIALE E LA SPIA (2019), di Roman Polanski
È ancora una volta “D’après une histoire vrai”, il cinema di Roman Polanski. Non più, come nel precedente e omonimo lavoro, con un titolo magnificamente fuorviante da cui travestirsi da noir e ragionare sulla finzione e sull’inventiva artistica che assurgono a potenziale realtà da tutti creduta, ma con il racconto per molti versi uguale e opposto di una reale “storia vera”, storicizzata in ogni suo personaggio e anzi fondamentale spartiacque fra l’Otto e il Novecento, che nelle sue false prove per incastrare un innocente e poi insabbiare l’errore giudiziario nient’altro si rivela che una ragnatela di finzioni e bugie, di menzogne intessute a creare un nuovo e falsissimo “vero”, una (non) “realtà” da dare in pasto ai giudici e alla furia razzista del popolo pur di insabbiare la più scomoda fra le verità. E non esiste, con ogni probabilità, una chiave più profondamente polanskiana per leggere e portare in scena fra il film-inchiesta e la spy story l’affare Dreyfus, che con i suoi servizi segreti deviati e autoassolutori, con la sua cortina di fumo e con i suoi documenti falsificati a “provare” le più pure illazioni ha segnato non solo in Francia la fine di un secolo e l’inizio leggermente anticipato del successivo, ha preannunciato le persecuzioni razziali della Shoah nell’antisemitismo già dilagante alla base della scelta del capro espiatorio e del continuo accanirsi contro di lui e contro chiunque cercasse di difenderlo lottando per la giustizia, e poi ha diviso profondamente il Paese, già nell’instabilità politico-sociale della sua Terza Repubblica con lo spettro del ritorno della corona degli Orléans sempre dietro l’angolo, fra i dreyfusiani e i colpevolisti, con il J’accuse pubblicato da Emile Zola su L’Aurore ad anticipare di un giorno la «Petizione degli intellettuali» e l’inizio del lento e difficile spostarsi verso la verità – potere sempre più in disuso della libera stampa – dell’opinione pubblica.
Non è certo un caso che Polanski inizi, senza titoli di testa, il suo J’accuse già annunciato in uscita in Italia con il titolo L’ufficiale e la spia con l’umiliazione massima della cerimonia di degradazione, quando Alfred Dreyfus, interpretato da un quasi irriconoscibile Louis Garrel, viene esibito alla stregua di un trofeo senza nemmeno essere passato da un processo di fronte al popolo inferocito mentre gli vengono strappati i gradi militari e gli viene spezzata la spada da parata – «I romani davano i cristiani in pasto alle belve, noi diamo gli ebrei in pasto alla folla». Ma non sarà Dreyfus, falsamente accusato e condannato al confino, il vero protagonista del film di Polanski. Anzi, nel lavoro di estrema sottrazione dell’autore, che al di là della straordinaria sequenza del metaforicissimo (e quasi certamente mai avvenuto, unico sprazzo di pura messa in scena nella ricostruzione dei fatti e delle indagini) duello a lame incrociate fra chi indaga a costo della propria libertà e chi insabbia a costo del proprio onore costruisce un film il più possibile classico, rigoroso ed essenziale, il principale attore rimane quasi ai limiti del campo, confinato su quell’isola/penitenziario fino al secondo processo, mentre il punto focale dello sguardo, della narrazione e dell’umanità è Georges Picquart (Jean Dujardin), capo dell’ufficio informazioni dello Stato Maggiore che si rese progressivamente conto dell’innocenza del condannato. È sua la necessità di lottare per la verità e per la giustizia, è sua la necessità di far emergere i fatti, è sua la necessità di non tacere, è suo l’essere disposto a essere pedinato, allontanato, spiato, congedato e arrestato (per poi essere reintegrato fino a diventare ministro sotto Clemenceau) pur di potersi ancora guardare allo specchio. Così come fu sua l’intuizione di scoprire il vero traditore rimasto impunito Ferdinand Walsin Esterhazy, tradito dai messaggi per i tedeschi e gli italiani che continuavano anche dopo l’arresto dell’innocente, forgiati con quella stessa calligrafia del bordereau che, con l’assurda denuncia di un presunto tentativo di autofalsificazione di fronte a ciò che non corrispondeva alla lettera scritta dal pugno di Dreyfus sotto la dettatura degli ufficiali in capo, era stata di fatto l’unica reale prova per la sua condanna.
Nei continui puzzle di telegrammi da ricostruire e leggere nell’ufficio spionaggio, con una tensione sempre crescente ma che mai esplode chiudendo ogni volta i protagonisti in un nuovo Cul-de-sac, Roman Polanski mette di fronte onore e cieca obbedienza, verità e ipocrisia, società e isolamento, mentre riflette su come la parola – scritta, riscritta, raccontata, inventata di sana pianta, o magari scritta fra gli amanti di una relazione infinita e infinitamente clandestina di Picquart – possa muovere la percezione della realtà. E poco importa che, nel percorso autoriale dell’autore polacco/francese, forse questo ambiziosissimo J’accuse, presentato fra mille polemiche (compresa l’uscita pubblica a dir poco infelice di Lucrecia Martel presidente di Giuria a rievocare ancora una volta in conferenza stampa quella vicenda giudiziaria ormai vecchia di 47 anni specificando di non voler scindere l’uomo dall’artista) e probabilmente eccessivi entusiasmi della stampa in concorso alla 67ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, possa essere considerato un titolo probabilmente minore nel suo alternare qualche didascalismo a probabilmente eccessivi salti temporali, nel suo stiracchiarsi ben oltre le due ore con qualche istante che gira a vuoto, oppure in quella mano della produzione Rai Cinema che a volte pare fare capolino in qualche ripetitività o in una piattezza visiva a tratti un po’ televisiva. Quello che conta è come, nell’assoluto isolamento di un innocente, lo Stato e l’esercito mentano accusando di mentire, coprano il colpevole (o per lo meno la non colpevolezza del condannato) a costo di accusare di cospirazione altri innocenti, a costo di alimentare consapevolmente la malafede pur di non ammettere la malafede e l’errore giudiziario, a costo di creare “verità” alternative con un muro di menzogne. Nella storia personale di un uomo che, in qualche modo, rispecchia e ripercorre la travagliata Storia della Polonia, messo di fronte a quel popolo bue, forcaiolo e più che vagamente antisemita pronto, dopo il J’accuse di Zola, a bruciare in strada (come a rendere ancora più chiara l’anticipazione del nazismo) le copie del giornale che lo aveva pubblicato rimarcando l’origine italiana dello scrittore francese, e poi a non accettare fino al Novecento inoltrato la realtà dei fatti e l’avvenuta riabilitazione di Dreyfus. Quello stesso popolo, come suggerito dalle colazioni sull’erba da un non particolarmente tenero Polanski, che pochi anni dopo non si farà particolari problemi a collaborare con la Germania nazista occupante, e che ancora oggi cerca le streghe. Quello stesso popolo le cui grida di rabbia e furia cieca sono così simili a quel giubilo ipocrita delle alte sfere dell’esercito e della politica quando, pure di fronte all’evidente innocenza di Dreyfus, la sua condanna verrà confermata dal secondo processo, paradossalmente ancora più ipocrita a offrirgli la grazia per poi riabilitarlo in Cassazione solo nel 1906 e con un nuovo governo, dopo altri sette anni di ufficiale colpevolezza e dodici in totale di un calvario in realtà eterno. Come testimoniato dall’ultima, agghiacciante sequenza, in cui sarà ancora una volta l’antisemitismo (proprio di Picquart) a rimettere all’angolo il soldato (e mai ufficiale) riabilitato con il netto rifiuto a un evidente diritto. Come se per un cittadino ebreo e quindi di serie B come lui fosse già più che sufficiente una parte della giustizia, e chiederla integrale, con la promozione che gli sarebbe stata dovuta senza l’errore giudiziario, ridiventasse insolenza. Proprio come è eterno il calvario giudiziario e soprattutto sociale di Roman Polanski, colpevole (per la legge statunitense e per la caccia alle streghe, ma non per la sua “vittima”) anziché innocente, ma di fatto condannato da quasi mezzo secolo a un ergastolo di latitanze e odio collettivo per il quale, non solo nelle derive del metoo, verrà per sempre visto evidentemente anche dalle Giurie che devono giudicarne le opere come un mostro. Senza possibilità di espiare la sua colpa, senza possibilità di redenzione, senza possibilità di perdono. E di certo non è casuale, in questo senso, la scelta dell’affare Dreyfus, né tanto meno è casuale il perentorio J’accuse del titolo, anafora polanskiana di una vita intera. Una vita da perseguitato, da sempre guardato con sospetto, persino nel ’69 quando – prima che venisse accertata la responsabilità del nazista Manson – venne inizialmente e con un imperdonabile torto persino accusato di essere, con i suoi film, il sostanziale mandante del brutale omicidio della moglie Sharon Tate incinta al nono mese, per una ferita personale, emotiva e morale mai del tutto rimarginata.
«Portare segreti nella tomba è l’essenza del nostro lavoro», dirà a un certo punto il generale Henry colpevole più diretto della congiura mentre, circa trent’anni prima dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti, continua a bloccare in ogni modo e infrangendo ogni procedura l’emergere dei fatti, aggiungendo continue colpe alle colpe, continue ipocrisie alle ipocrisie, continue finzioni alla fabbricazione di quella “verità” ufficiale e alterata, così comoda per quel Potere che la scrive, la dirige e la interpreta eppure così lontana dai fatti, dalla correttezza e dalla rettitudine. Come la copia romana di statua greca: comunque antica, comunque preziosa, ma pur sempre, al di là delle sue apparenze, un sostanziale falso d’autore da smascherare con l’etica, con l’onore e con il senso della giustizia. Disposti ad accettare ogni possibile conseguenza delle proprie azioni, come Georges Picquart, come Emile Zola, o come lo stesso integerrimo Alfred Dreyfus che mai ha smesso nemmeno per un secondo, nemmeno durante i cinque anni di ingiusta prigionia sull’Isola del Diavolo, di proclamare la sua innocenza. Fino a una riabilitazione con cui rendersi tristemente conto, anche nel cambio politico, anche nel cambio delle figure in capo all’esercito, di essere ancora e probabilmente per sempre discriminato. Perché anche la giustizia è uno sprazzo, una mera illusione, nel momento in cui la società e il mondo vanno alla rovescia. È solo l’anticamera del successivo sopruso, del successivo razzismo, della successiva persecuzione. Che sia un innocente al confino, che siano i milioni di innocenti ad Auschwitz, che sia un reo confesso mai perdonato nonostante gli anni passati, le scuse e le ripetute ammissioni dell’errore, oppure che sia il prossimo caso di una lista da sempre infinita e inesauribile, come quel catalogo di soldati ebrei da cui, già nel 1894, l’esercito estrapolava il prossimo “colpevole” su cui costruire la sua prossima “verità”. La sua prossima, falsissima, “storia vera”.
Marco Romagna