«Stavo solo cercando di dire che il conflitto ha esteso i suoi tentacoli a qualsiasi altra parte del mondo e che c’è una “palestinizzazione” globale dello stato delle cose. È in pratica ciò che questo film cerca di indicare, in realtà. Voglio dire, lo stato di eccezione, lo stato di polizia e la violenza sono ora come un terreno comune ovunque andiamo. La tensione e l’ansia sono praticamente ovunque, e non è più solo un conflitto locale». Così Elia Suleiman, in una recentissima intervista a Cannes (qui la versione completa in italiano), continua a interrogarsi sull’estraneità di un’identità da portare magari, come in questo caso, in giro per il mondo. Dieci anni dopo Il tempo che ci rimane e la sua dialettica circolare in quattro atti digressivi e contaminati attorno alla Palestina, questo It Must Be Heaven presentato quasi in chiusura del Concorso di Cannes 2019 appare quasi come un entracte, come il desiderio di una fuga immaginaria, come un gioco di impressioni sdoppiato in altrettante (e nuove) riflessioni. Un ri-spostamento, probabilmente, del senso stesso di uno stato di allarme continuo, che oltrepassa le stesse traiettorie politiche per individuare il dramma sociale del vivere il presente. Costantemente sospeso quasi come in uno spettro magrittiano di surrealtà, Suleiman ci invita a viaggiare con lui, ad aprirsi e considerare spazi e squarci che oltrepassino muri e confini, semplicemente con la forza – sempre più iconoclasta – di uno sguardo. Come se fosse un gioco, come se fosse un sogno.
Guarda, Elia Suleiman. Guarda spesso in macchina, guarda di fronte a un osservatore, guarda a fianco della storia. Guarda e resta, pressoché sempre, muto. Guarda mentre fugge da una Palestina assurda (emblema ne è il suo albero di limoni), nella possibilità di un luogo alternativo che possa essere patria. Pare viaggiare solo, nella Parigi deserta e quasi metafisica del 14 luglio, o in una New York perennemente auto-armata e militarizzata. Pare provenire da un altro pianeta solo per scrutare, osservare, definire l’evoluzione di un’umanità a cui con sempre più fatica ci sentiamo di appartenere. Accanto a lui, come un fantasma, ecco la sua identità; quell’etichetta – anche un po’ esotica, rappresentata nell’unica battuta di Suleiman all’interno di un taxi notturno a Manhattan – di palestinese. Quasi come se definisse un’anima in cattività e/o in via di estinzione. Attraverso questa divagazione il pensiero dell’attore/autore cambia, si evolve a interrogativo continuo ed esistenziale sull’appartenere (piuttosto che sull’appartenenza). Anche quella di essere un regista, della sua difficoltà di continuare a creare – nonostante faccia film divertenti, come verrà detto a una produttrice – e di esprimersi anche al di fuori dal suo territorio. Ed ecco che tutto torna, e quel processo di “palestinizzazione” che lui stesso citava nell’intervista è la chiave di lettura per decifrare ed entrare all’interno di questo affresco sfuggente e vibrante, spassoso e commovente. Nel suo sguardo così distante e lontano c’è lo stupore della ridiscussione di un mondo possibile, di un nuovo stato delle cose che è interno al suo cinema e che lo fa continuamente rivivere, all’infinito.
Tra Jerry Lewis e Monsieur Hulot, o forse tra Beckett e Keaton, Elia Suleiman – o forse la sua maschera, con gli occhiali che spuntano sotto l’inconfondibile panama – riscrive il paesaggio che abita, mentre il suo sguardo crea un’altra realtà constatando che quella “palestinizzazione” – o forse mediorientalizzazione, verrebbe da dire – ha coinvolto ogni frammento della quotidianità occidentale. Lo fa con leggerezza (mai superficiale) attraverso incastri di questa società regolata solo dall’apparenza nelle sue direttive dell’assurdo. E poi c’è l’anima di quello sguardo che reinventa il mondo. Dalla straordinaria ed esemplificativa scena di apertura in cui il Re (un prete ortodosso, ovvero il potere tutto) viene messo a nudo, alla sedia a rotelle rimasta malinconicamente vuota tra le ombre di casa (la stessa che dieci anni prima ospitava la madre, che lui stesso accudiva al suo ritorno). Un’anima nella flagranza della sua libertà, che scruta il grottesco della strutture del mondo, nella paralisi della logica, nell’ossessività del controllo, e le mette in crisi costantemente coi suoi passi; l’essenza di questa realtà frontale, mediata e riscritta ellitticamente con continue reiterazioni, sta nel mezzo tra lo sguardo in macchina e il fuori-campo, in quell’infinito spazio di memoria tra il tragico e il ridicolo che il mondo pare essersi scordato. Perché solo i palestinesi bevono per ricordare, tutti gli altri per dimenticare. Tutto scorre, prima di ritrovarsi davanti a quell’albero di limoni nel sole del giorno, davanti a un palazzo solitario nella notte silenziosa. Fino a una sagoma, un altro albero di limoni, controluce e quasi stilizzato in un sentiero di campagna. Schermo nero, «alla Palestina». It Must Be Heaven è un piccolo/grande film, al di là delle trovate di straordinaria limpidezza comica, delle derive verso l’assurdo, della decomposizione di uno sguardo attraverso tempi e spazi costantemente modulati. Lo è perché ci interroga attraverso il suo volto astratto e imperturbabile, ci invita a pensare a quale possa essere la nostra identità e a come oggi possiamo pensare al concetto di radici. Ci chiede di guardare nei suoi occhi, a quello che loro hanno visto, a quello che noi potremmo vedere. Sempre ammesso che sia possibile riuscire a tenerli del tutto asciutti.
Erik Negro