IT (2017), di Andy Muschietti
C’è qualcosa di strano e misterioso nel nuovo adattamento di It di Muschietti. E non deriva solo dalla provenienza del film, ovvero il romanzo più conosciuto di Stephen King, forse il più celebre, versatile e prolifico autore di romanzi statunitense della seconda parte del Novecento. It uscì nel 1986 dopo una fase di scrittura di mezzo decennio, e nella sua durata di oltre 1200 pagine è forse per certi versi scomodo da trasformare in cinema. Nel 1990 ci provò Tommy Lee Wallace, allievo e scenografo di John Carpenter, in una mini-serie TV di due puntate per una durata complessiva di poco più di tre ore, fallendo miseramente nella rappresentazione dell’universo di King ma donando all’immaginario collettivo uno degli antagonisti horror più riconoscibili del cinema grazie al grande Tim Curry, perfettamente immerso in una resa eccentrica e roboante di Pennywise, il clown ballerino, che nel titolo diventa appunto “esso”, “it”, un male indefinibile. O, meglio, un’allegoria di un male assoluto che penetra nella mente degli uomini, soprattutto dei ragazzini, manifestandosi fisicamente attraverso i corpi e le idee che più spaventano le sue vittime. Il lavoro cine-televisivo di Wallace, pur forte dell’interpretazione di Curry e di un paio di momenti giustamente diventati ‘cult’, è stato spesso criticato, anche ragionevolmente, per aver banalizzato il materiale d’origine, anche spesso ricorrendo a effetti speciali che già all’epoca erano datati. Il nuovo adattamento curato da Muschietti, a partire da una sceneggiatura a cui ha collaborato il regista della prima stagione di True Detective Cary Joji Fukunaga, che avrebbe dovuto dirigerlo ma che fu poi allontanato dalla produzione, arriva 27 anni dopo Wallace e Curry, proprio come Pennywise stesso, che si manifesta nella cittadina fittizia di Derry, Maine (nucleo dell’azione anche in altri lavori di King, come Insomnia, L’acchiappasogni e 22/11/63) proprio ogni 27 anni. È come se il film di Muschietti fosse già di per sé un demone, e questa auto-demonizzazione deriva probabilmente da due fattori che in realtà potrebbero essere considerati negativi se non li si accetta prontamente prima ancora della visione: il fatto che è un film pop, un prodotto commerciale creato comunque sperando negli incassi (che sono arrivati, già ventuplicando il budget e rendendo It il film horror di maggior successo al box office nella storia); e il fatto che è un film autonomo e iconoclasta, che usa il romanzo d’origine come riferimento ma non come base assoluta e intoccabile. Fukunaga, o chi per lui, ha giustamente tentato la ricerca di un equilibrio tra l’inevitabile ricchezza di riferimenti al romanzo originale, con molteplici dettagli invece assenti nella mini-serie del 1990, e l’importanza di comunicare qualcos’altro, andando oltre l’orrore, cercando di recuperare da King l’insieme di generi letterari ma con un approccio nuovo e diverso. Può essere difficile per molti accettare entrambe le cose, visto che King ha uno stuolo di ammiratori fedeli che non cambierebbero una virgola dai suoi romanzi e visto che la profondità di sguardo di It ha al suo interno una strutturazione mitologica colma di momenti cosmogonici e parentesi allegoriche narrativamente estreme. Per esempio, possiamo pensare alla tartaruga cosmica Maturin, che vomitò l’universo a noi sconosciuto, aiutante dei ragazzi nella sconfitta di Pennywise e poi presente anche in un’altra serie di romanzi di King, La torre nera; o ancora possiamo pensare a come i ragazzi riescono a ritrovare l’unità del gruppo dopo aver sconfitto It nel romanzo, attraverso una specie di ingenuo amplesso di gruppo dal forte valore spirituale e formativo.
In una rilettura odierna, queste particolarità devono per forza di cose essere rilette all’interno di uno spettro di valori per quanto riguarda la loro filmabilità. Una tartaruga spaziale, per quanto gli effetti digitali oggigiorno possano fare tutto, è difficilmente inseribile nel contesto chiuso dell’ambientazione effettiva del film, mentre la controversa orgia tra pre-adolescenti è difficilmente ottenibile da un punto di vista legale e sicuramente anche difficilmente apprezzabile per un pubblico medio e ‘politically correct’. Lo script ovvia a questi problemi di identità e di profondità muovendosi principalmente mediante l’arte dell’allusione: per esempio, Maturin non si vede, ma è evocata in almeno tre scene in maniera sottile. È come se fosse un simbolismo onnipresente, che osserva senza intervenire o giudicare. Per quanto riguarda l’aspetto pop e commerciale del film, è una cosa che andrebbe accettata nel momento in cui si entra in sala. Del resto, l’immaginario della letteratura di King è di dominio pubblico e ha attorno a sé un pubblico definito che è legato ai suoi simboli e probabilmente non ne accetterebbe complete deturpazioni autoriali così tanti anni dopo Carrie (1976) di De Palma e Shining (1980) di Kubrick, entrambi film che hanno subìto orrendi rifacimenti, il primo con una versione commerciale e plasticosa nel 2013 e il secondo in una miniserie del 1997 curata dallo stesso King. Per non parlare poi degli adattamenti di Rob Reiner e di Frank Darabont, oltre all’It di Wallace, che hanno rinforzato l’idea di una visione ‘cult’ di questo universo. In tempi recenti, poi, con la rivoluzione della serialità americana, sono arrivati in produzione Under the Dome e soprattutto Stranger Things, anomala e interessante serie TV Netflix d’autore che partiva da molte scelte narrative di It e de Il corpo (racconto che divenne nel 1986 il film Stand by Me di Reiner) mischiandole con citazioni stilistiche a Zemeckis, Spielberg, Carpenter, Joe Dante e altri tra i principali autori fantascientifici e fantastici degli anni ’80. Stranger Things potrebbe non avere la stessa verve anarchica del cinema di questi autori, ma ha l’intensità epica e l’onestà di porsi come un tributo non superficiale alla loro estetica. Tuttavia, è difficile non percepire il successo della serie dei Duffer Brothers (prima stagione del 2016, seconda stagione in arrivo tra pochi giorni) come parte integrante di una tendenza a cavalcare l’onda facilona del fascino nostalgico degli anni ’80.
In quest’ottica, è interessante che l’It di Muschietti non ambienti più l’infanzia dei suoi protagonisti negli anni ’50 bensì nel 1989, ovvero pochi anni dopo il momento in cui nel romanzo i protagonisti attraversavano l’età adulta. È interessante sia da un punto di vista commerciale (basti notare che nel ruolo del piccolo e scherzoso Richie c’è Finn Wolfhard, protagonista di Stranger Things) sia da un punto di vista contenutistico, perché questa scelta presuppone una scissione morale tra cronologia e ‘setting’ psicologico, traslando per esempio il razzismo che sancisce la caratterizzazione dell’afroamericano Mike, sfortunatamente comprensibilissima in un’ambientazione anni ’50, in una sua evoluzione più atipica, diversamente violenta e densa. Inoltre ciò implica che l’eventuale secondo capitolo cinematografico, che dovrebbe arrivare nel settembre 2019, è ambientato nel 2016, ai giorni nostri, giustificando peraltro l’utilizzo degli effetti speciali digitali in questo primo film. Trasportare It in un’ottica modernizzata può essere una scelta commerciale, ma implica anche un aggiornamento all’interno dell’orrore, trasportando le conseguenze di questo orrore in un’altra direzione, quella di un’attualizzazione delle paure consce e inconsce dell’uomo, amplificando il valore comunicativo e formativo nelle caratterizzazioni dei personaggi. Quindi, molte cose possono cambiare, e devono cambiare. Si può anche solo pensare al fatto che nel romanzo e nella mini-serie gli eventi dell’infanzia erano messi in scena attraverso il ricordo, rievocando eventi durante lo scontro adulto, mentre qua i due momenti sono separati drasticamente. Togliere l’aspetto della memoria rende più concreto e meno distante questo primo capitolo, in un modo o nell’altro intensificandone l’impatto emotivo, che non è legato solo all’aspetto fantasy/horror, sicuramente efficace nel creare e modificare situazioni, incontri, visioni, allucinazioni e incubi, ma anche a un altro, più complesso spettro di emozioni. I personaggi sono caratterizzati in maniera tradizionale, anche se sfaccettata in alcuni casi, in particolare quelli di Stan e Mike, a causa del poco tempo disponibile – la fonte rimane pur sempre un libro lunghissimo, difficile da riassumere, anche se il minutaggio è sicuramente in media più generoso che nella miniserie di Wallace. Bisogna poi sicuramente nominare la sequenza chiave delle diapositive, in cui i ragazzi tentano di studiarsi le mappe delle fognature, ma il proiettore comincia a funzionare da solo a causa delle crudeli pianificazioni di It. Il tremendo pagliaccio diventa gigantesco e penetra nelle immagini, sostituendosi ai volti riconoscibili per eliminare le certezze. Il suo sguardo strabico è di per sé indicativo di quanto l’orrore possa essere distorto, e di quanto l’orrore possa distrarre chiunque, anche gli occhi innocenti di un gruppo di amici, sviandoli dalle loro pianificazioni in direzione di un promemoria di cosa il buio può celare: un’icona che si finge di essere umoristica, ma che in realtà è una manifestazione oscena di un’orripilante significante interiore. Nulla, neanche quello che può vagamente insinuarsi nella coda dell’occhio, può scappare dalla definizione del terrore, ed è in ciò che sta l’efficacia di Pennywise, nella distorsione dell’aspettativa, nell’espressività caotica del momento singolare, nel singhiozzo epilettico del buio nel mezzo di un incontro.
Il fatto è che è anche abbastanza triste, dal nostro punto di vista, esporre le qualità di It da un punto di vista quasi strettamente produttivo e commerciale, identificandolo quindi subito come un lavoro prettamente simbolico, distaccato dal suo contenuto. Il contenuto però rimane, umanissimo, mai esplicitato ma sempre ricreato attraverso le semplici interazioni, tanto in fase di sceneggiatura quanto in fase di regia, o di montaggio, o di fotografia (curata da Chung-hoon Chung, DoP di fiducia di Park Chan-wook). L’isterico spavento innescato da questa nuova manifestazione di Pennywise, che nel giovane Bill Skarsgård, figlio del grande Stellan, trova una maschera perfettamente inquietante e squilibrata, è reale, vicino a ciò che spaventa i bambini, tra traumi pregressi e paure oniriche eterne. Ma, appunto, non è solamente un flusso di terrore, è anche e soprattutto un film sulla maturazione di un gruppo di amici, che devono smettere di essere perdenti o sfigati, ovvero “losers”, e diventare capaci di amare, di avere affetti, di essere esseri umani compiuti, ovvero “lovers”. L’orgia nelle fogne è stata eliminata, ma la relazione stretta tra i ragazzi è intensificata, con un apice commovente nell’inaspettatamente incredibile emotività del finale, con il patto di sangue tra i “losers”/”lovers”, ormai consideratasi parzialmente liberi da It e soprattutto dai bulletti che li attanagliavano, e il bacio tra Bill e Bev, momento assoluto di distacco che porta verso l’età adulta. Questa scena, che dovrebbe ricordare a ogni spettatore l’emozione del primissimo bacio, conclude il film attraverso lo sguardo di Bill, che va fuori campo, come nella previsione di qualcosa. Ma questo qualcosa non è per forza l’orrore, è il futuro. Un futuro che spaventa, ma comunque un futuro che deve essere atteso e previsto. Il sangue sul suo collo è quello del patto amichevole, non quello di una strage; è, insomma, una chiazza di forza vitale o spirituale cosmica, come quella creata dall’amplesso orgiastico nel romanzo, una sensazione di potere e di condivisione. L’attrice che interpreta Bev, Sophia Lillis, giovanissima e già appassionata di Neorealismo e Nouvelle Vague (come dimostra quest’intervista-tributo a Masculin Feminin (1966) di Godard), tra i protagonisti è sicuramente quella che più spicca, perlomeno per bravura recitativa e indipendenza caratteriale. I suoi capelli rossi, le sue lentiggini e i suoi occhi chiari si specchiano negli iridi degli altri ragazzi, forse tutti profondamente innamorati di lei, o forse solo Ben, che in lei vede una “bella addormentata nel bosco” da baciare in un tentativo di salvataggio dal male, o forse solo Bill, che usa il contatto fisico con lei per separarsi dal demone del lutto del fratello (il cui corpo cade in sottofondo dopo la sconfitta di It, senza che nessuno rivolga a esso lo sguardo: ormai quello è superato, la cosa importante è la vita) e per entrare nei meandri della sessualità, e soprattutto dell’amore. C’è una necessità di separazione dagli affetti dominanti dei genitori, assenti e ciechi, con parricidi e fughe di casa, il che è tragico, ma c’è anche una resurrezione sensoriale dei corpi e dell’anima al di fuori dalle cicatrici traumatizzanti della paura, il che è dolce, come la joie de vivre di un bagnetto estemporaneo, tanto sessuale quanto passivo aggressivo, tra amici, in un laghetto che rappresenta un po’ la condivisione dello stesso liquido amniotico, della stessa educazione che deve rinascere a partire dall’origine stessa della vita. It di Muschietti, se lo si vede come un film che si dimostra alle proprie massime potenzialità negli ultimi 5 minuti, non è tanto un film horror quanto un tenerissimo, dolcissimo, umanissimo teen-drama sul superamento delle paure e sulla scoperta del Sé da un punto di vista carnale e spirituale. E ciò può sconfiggere qualsiasi barriera logica nei problemi produttivi, qualsiasi riserva, dubbio, perplessità, portandoci a difendere It, anche se, e lo ammettiamo apertamente, non ce l’aspettavamo. Perché, anche se può sembrare nascosto, c’è sempre la reminiscenza eterea del primo bacio, nel cuore di tutti noi.
Nicola Settis