ISABELLE (2018), di Mirko Locatelli
È tutto un gioco di aspettative e ambiguità l’interessante e imperfetto Isabelle, opera terza del regista e produttore milanese Mirko Locatelli da oggi nelle sale italiane. È un film di passati inconfessabili, di doppiezze, di atroci (auto)conservazioni, di pericolosi affetti, di sempre meno velate seduzioni. È un film di scelte di una madre, è un film di conseguenze, è un film, volutamente e necessariamente irrisolto, di dubbi e di inganni, di errori e di sospensioni. È un film di sensi di colpa, di stratagemmi, di rimpianti, di rischi, di contrapposizioni, di piena e scarsa lucidità che si rincorrono. È un film di ritagli di giornale tenuti in un cassetto, di visite interessate all’ospedale, di una casa che diventa sempre più prigione di rimorsi e di tentazioni, di vacillamenti e di allusioni, di sottili vendette e di bivi psicologici, umani e sentimentali in cui è facilissimo sbagliare percorso. Specialmente quando si tratta di un percorso, come quello di Isabelle, che si snoda lungo il sentiero di un’estate, scandito dai quattro mesi dal prologo di giugno all’epilogo di settembre, in cui la narrazione rimane quasi di sfondo e l’azione, ben più che mostrata, emerge dai dialoghi e ancor più dai silenzi, dai non detti, dagli sguardi, dalle impressioni (e quindi dalle scelte in buona fede) giuste e sbagliate. Perché non è in alcun modo la trama, ciò che interessa a Locatelli. Guardando più apertamente che mai al cinema francese, fra gli echi di Nouvelle Vague che si rincorrono nella sincerità che emerge dall'(in)essenziale dei tempi morti e la scelta di Ariane Ascaride, moglie e musa di Robert Guédiguian qui co-produttore, nel ruolo della protagonista, quello che si mette in scena in Isabelle è l’intimo dei personaggi, sono i loro dilemmi esistenziali, sono le loro differenti reazioni di fronte al trauma, alla colpa, all’ambiguità, al desiderio più assurdo e proibito. Tanto da lasciare l’azione quasi totalmente fuori campo, come un fantasma che incombe dai ricordi, oppure come una telefonata dopo la quale, prima di prendere un aereo, ritrovarsi a dover prendere definitiva coscienza della realtà, del luogo dell’incidente, di quell’istante che così nettamente ha condizionato le vite intrecciate dei protagonisti.
Parte con l’avvicinarsi di una madre possessiva e iperprotettiva alla vittima di un incidente stradale provocato dal proprio figlio per essere certi che le indagini procedano in direzione sbagliata, Isabelle, e procederà con la donna che diventerà per per la vittima, proprio mentre continua a mentirgli, prima una mamma, poi un’insegnante e poi forse qualcos’altro, in un rapporto sempre più intimo e sfumato nel morboso fra una maglietta che si alza e i vecchi costumi da bagno ritirati fuori dagli armadi con una risata maliziosa e un po’ illusa. Perché la verità a volte è crudele, sadica, cinica, spietata, e non si può mai sapere quale via sceglierà per disvelarsi. Mirko Locatelli, coerentemente con il linguaggio già sviluppato con la diversità adolescenziale de Il primo giorno d’inverno e ancor più smaccatamente con la malattia de I corpi estranei, dipinge i suoi personaggi in una sorta di bolla di estrema sottrazione, in cui i lunghissimi pianisequenza, quasi sempre d’interno, forzano gli attori a usare i propri corpi e i propri sguardi anche per riempire il tempo, per muoversi nel vuoto e nel dubbio esistenziale, per delimitare nello spazio fisico dei set, rigorosamente “reali” per ambientazione e per tessuto sociale, il proprio spazio vitale ridotto in questo caso dalla paura e dalla colpa. E anche quando la macchina da presa e la (non) vicenda fanno capolino fuori casa, i paesaggi delle campagne e della costa triestina sono perfetti per creare continuità nello lo stesso senso di oppressione, in una visione della luce e della natura giuliana mai realmente aperta, ma sempre parziale, sfocata, stretta, quasi irriconoscibile nei suoi angoli più nascosti, un po’ come se il paesaggio fosse lo spiraglio attraverso cui si insinua quel traumatico evento costantemente evocato. Sono corpi in relazione con gli ambienti in cui vivono, quelli in cui Locatelli trova, come di consueto, i migliori spunti del film, incorniciati nelle porte di casa, concentrati alla guida della vecchia Renault 9 con le gomme lisce, ricuciti nelle ferite ancora aperte che si cerca di far cicatrizzare al mare. Sono corpi illuminati dal riverbero delle proiezioni del planetario oppure chini di fronte al computer, svenuti in chiesa nel bel mezzo della gravidanza o ancora torturati dai dubbi e dalle paure, dagli istinti e dai sensi di colpa, dall’ipocrisia e dai desideri. Sono corpi di cicatrici e di rughe, di segni del tempo e insieme del dubbio, sono corpi sinceri, puri, profondamente veri. Come le anime.
Isabelle, sin da principio, si trova a un punto di non ritorno, nel quale è impossibile cambiare il passato e cancellare l’evento traumatico del passato. Può solo andare avanti, convivere con la consapevolezza, trovare una nuova priorità di vita nell’autoconservazione, nella protezione dell’unico figlio e della sua famiglia che sta crescendo nel ventre della moglie lontano, in Francia, quella terra natale in cui Isabelle, con il suo incarico a Trieste come astronoma, non torna forse da troppo tempo. La sua è prima un’osservazione discreta, un avvicinarsi un po’ ipocrita a quel sopravvissuto all’incidente nel quale altri hanno perso la vita proprio per assicurarsi che rimanga impunito, ma poi entrano i rimorsi e i sensi di colpa, e mentre cresce un’affezione inaspettata, maliziosa e pericolosa, non si potrà che ridiscutere continuamente la natura di ogni rapporto e di ogni decisione. Da un lato c’è la razionalità del figlio, il colpevole, che vorrebbe la madre il più possibile lontana dalla vittima dell’incidente, da chi non solo potrebbe denunciarlo, ma avrebbe piena ragione nel farlo. Dall’altro c’è la curiosità/preoccupazione un po’ perversa di Isabelle, c’è la sua empatia verso quella creatura indifesa e con il braccio al collo, c’è la sua attrazione nei confronti del ragazzo che sta tornando alla forma, ci sono le sue decisioni, il suo esporsi, il suo prendersi rischi. Un po’ per capire, un po’ per istinto, un po’ per rimorso, un po’ per errore. Fino a diventare la sua insegnante estiva di ripetizioni, fino a invitarlo ripetutamente a casa, fino a scatenare una sorta di rivalità con il figlio, fra gelosia, ambiguità e vendetta, fra chi sa e chi crede che l’altro non sappia. Locatelli, affiancato come di consueto nella scrittura dalla moglie Giuditta Tarantelli, mette in scena fra dramma morale e melò il dubbio, il limbo, il dramma esistenziale, ragionando con una messa in scena che letteralmente immerge i suoi attori negli ambienti reali sulla psicologia dei suoi personaggi, sulla loro curiosità, sulle loro manie, sulle loro contraddizioni. Sui loro rapporti che non possono che cambiare e incartapecorirsi sulla risacca dell’onda della colpa, fra i litigi in aperta campagna con il figlio Jerome sceso a trovarla e quelle che diventano sempre più aperte sfide da parte del giovane studente, fra chilometriche telefonate e una moglie trascurata o costretta a viaggiare in gravidanza sugli effetti domino dell’incidente.
Spiace quindi ancora di più che, con queste più che ottime premesse e ambizioni, a conti fatti in Isabelle non tutto riesca funzionare alla perfezione. O meglio, che smetta di farlo nell’ultima sezione, rivelando in piccola parte i problemi produttivi emersi durante la lavorazione. Ben al di là della – comprensibile – differenza qualitativa di recitazione fra il pur bravo esordiente triestino Samuele Vessio e gli straordinari iper-professionisti francesi Ariane Ascaride e Robinson Stevenin, che provoca forse qualche stridore ma non costituisce, nel cinema realistico e minimale di Locatelli, un reale problema, non funziona per esempio l’allusione alla bisessualità di Jerome, semplicemente lanciata con il suo incontro con un contadinotto locale e subito abbandonata senza più portarla avanti, non funziona fino in fondo il personaggio di Anna, un po’ collega e un po’ colf di Isabelle, il cui ruolo finirà per ridursi a quello, un po’ pretestuoso, della testimone che dicendo ciò che sa in ritardo fornirà alla protagonista la (non) soluzione del mistero, e soprattutto non funziona fino in fondo la sezione finale, irrisolta ben al di là di un finale aperto fra un poco convincente tentativo di stupro e una conclusione un po’ scolastica, per dialoghi e per scelte (anti)narrative, della vicenda. Il che porta a pensare che forse Mirko Locatelli si sarebbe potuto fermare un passo indietro, senza spingere il (melo)dramma morale verso una tragica seduzione/vendetta a cui è onestamente difficile credere, senza voler ribaltare proprio su Isabelle il ruolo di vittima degli inganni fornendo al giovane la prova del coinvolgimento della protagonista. Ma non bastano certo gli ultimissimi minuti, per quanto forieri di qualche riserva e di qualche rammarico, per sminuire un film come Isabelle. Un film acuto e mai giudicante nel riflettere sui suoi dilemmi etici e morali, un film perfettamente calibrato nel suo multilinguismo italiano/francese ad aumentarne ulteriormente il realismo, un film con un’idea ben chiara e talentuosa di cinema e di messa in scena, che proprio attraverso la sua messa in scena cerca e trova le ambiguità di cui si nutre e si innerva. Una messa in scena di impliciti, di non detti, di corpi, di tempi e di spazi. E questo, nel panorama non solo italiano contemporaneo, è una merce rara da tenersi stretta. Coltivandola con tutto l’amore che merita.
Marco Romagna