IRRATIONAL MAN (2015), di Woody Allen

Da qualche anno oramai, con l’avvicinarsi delle feste, siamo abituati all’arrivo sugli schermi del consueto appuntamento con il nuovo film di Woody Allen: dopo la consueta passerella a Cannes, viene tenuto per qualche mese in caldo e distribuito in Italia solo a dicembre, quasi come un cinico, disilluso e ironico antidoto al Natale. Questo rituale ci ha portato svariate delusioni (per citarne dolorosamente una, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni), qualche piccolo gioiellino (su tutti Blue Jasmine e Midnight in Paris), ma soprattutto una serie di lavori che, per quanto godibili e perfettamente inscrivibili nella sua filmografia, davano l’immagine di un autore non più ispirato come ai vecchi tempi, lasciando con un po’ di amaro in bocca gli estimatori recidivi come il sottoscritto. Eppure, stavolta, con questo Irrational Man, scatta una scintilla di proporzioni sicuramente oltre le aspettative.

Abe (Joaquim Phoenix) è un celebre professore di filosofia morale appena trasferitosi in una nuova università. Alcolizzato, impotente, autodistruttivo, cinico ai confini del nichilismo, completamente disilluso nei confronti del proprio lavoro, della giustizia, del sapere e dell’esistenza stessa, appare come una versione meno ironica e più sofferente del Boris di Basta che funzioni, ma dotato di un fascino oscuro irresistibile, che trascina con sé Rita (Parker Posey), una professoressa stanca della vita borghese e delle sue ipocrisie, e Jill (Emma Stone), una talentuosa studentessa che ricorda la giovane Tracy di Manhattan. La crisi del protagonista e i suoi rapporti con queste due donne si sviluppano nella primissima parte del film senza particolari sorprese, fino al punto di svolta fatale: per puro caso Abe e Jill, seduti in un locale, sentono una discussione che si sta svolgendo alle loro spalle. Questo controcampo totalmente fortuito presenta al protagonista la storia di una donna che perderà l’affidamento dei suoi figli unicamente per colpa di un giudice corrotto: Thomas Spangler. Il suo nome si insinua e si radica nella mente di Abe, che, dopo aver fatto numerose ricerche a riguardo, giunge alla conclusione che il mondo non potrebbe che essere un posto migliore senza Spangler, e che dunque vada ucciso.

È proprio questo progetto del delitto perfetto, al di fuori di ogni possibile codice morale o razionalità, che riesce a far ritrovare al protagonista la voglia di vivere, di agire, proprio perché libero da ogni vincolo della società. Abe si propone di superare l’etica per migliorare il mondo con un atto che da solo riesce ad essere più vero, concreto ed incisivo di anni e anni di lavoro accademico, che si rivelano essere null’altro che masturbatorie elucubrazioni intellettuali. L’intuito diventa per lui l’unico criterio affidabile, l’irrazionalità l’unica autentica via; lo stesso primo bacio con la sua studentessa appare sullo schermo su di un riflesso deformato, in un labirinto di specchi che potrebbe ricordare l’ambientazione del celebre finale de La signora di Shanghai. Ma è soprattutto Hitchcock che viene in mente nella seconda metà del film, a cominciare dall’eleganza dello stratagemma con cui il protagonista uccide il giudice, e specialmente in seguito quando fra lui e la sua giovane amante la ricerca del colpevole si traduce in un gioco di arguzia e tensione degno di Nodo alla gola, a cui lo spettatore onnisciente assiste da comodamente seduto, ascoltando a turno i pensieri di Abe e quelli di Jill che accompagnano tutto il film, mentre un ironico leitmotiv torna costantemente ad alleggerire da ogni peso morale gli eventi che gli si parano davanti. Questo perché la moralità stessa non esiste più, l’Universo intero è governato unicamente dal caso, la vita è una sequenza di eventi incontrollabili: una roulette russa che al penultimo colpo risparmia la vita, un premio vinto girando una ruota ad una fiera, una serie di incontri fortuiti che portano un uomo prima ad architettare un omicidio, poi ad essere in seguito sospettato e scoperto, e infine alla sua caduta. Più che un ritorno a Match point, è un suo superamento, perché riguarda la vicenda dell’umanità non più con approccio tragico e teatrale bensì con un allontanamento etico che esplicita alla perfezione una nuova concezione del rapporto tra l’oggettività e la soggettività dei suoi antieroi nella realtà cinematografica: difatti non c’è alcuna cupa drammaticità, e anzi il finale è all’apparenza l’esatto opposto, ma nasconde appena sotto la sua superficie un’ambiguità devastante, con il suo spazio vuoto, svuotato, privo d’anima.

Irrational man è dunque un racconto perfetto, in bilico fra dramma, commedia e giallo, caratterizzato da una regia concisa, sicuramente lontana dalla sperimentazione e dall’esuberanza formale dei primi grandi film di Allen, ma che necessita di poche e straordinarie immagini per sussistere e funzionare alla perfezione; una su tutte il mare, che ricorre più volte nel corso dell’opera fino a costituirne l’inquadratura finale, liberata ormai da qualsiasi soggetto umano. Un emblema dell’infinito, dell’indefinibile che l’uomo ha tentato invano di arginare, di spiegare sprecando migliaia e migliaia di inutili parole. All’alba dei suoi 80 anni appena compiuti, Allen ci regala una meravigliosa sorpresa che non può che farci ben sperare per tutti gli anni e i film a venire che gli verranno ancora concessi. Grazie, Woody, alla prossima!

Tommaso Martelli