È il 24 giugno 2017, il primo giorno del Cinema Ritrovato, quando il volto di Alvy Singer ricompare sullo schermo della sala a quarant’anni dalla prima proiezione di Io e Annie (in originale Annie Hall, vero nome della musa del tempo Diane Keaton – può esistere dichiarazione d’amore più bella?), e si confida al pubblico raccontando della sua rottura con l’omonima donna. Il protagonista parla tanto della sua storia con Annie, dal primo incontro fino alla sua fine, quanto della sua infanzia a Brooklyn, del fallimento dei suoi due matrimoni, della sua carriera da comico, saltando improvvisamente avanti e indietro nei propri ricordi. Alvy è, da buona incarnazione del personaggio filmico di Woody Allen, un ebreo newyorchese intrappolato nelle proprie nevrosi, ossessionato fin da piccolo dall’insensatezza dell’esistenza da un lato e dalla sessualità dall’altro. Annie è invece una donna semplice, tanto solare quanto insicura, che si lascerà spronare da Alvy a coltivare la propria aspirazione per il canto e a crescere intellettualmente, fino al punto in cui ne prenderà inevitabilmente le distanze.
La loro storia viene raccontata da Allen in tutte le sue fasi, anche se in ordine sparso, attraverso una scelta di situazioni e uno stile di narrazione geniali: abbiamo ad esempio il loro primo incontro in cui entrambi mostrano un tenero imbarazzo, forse mai rappresentato così bene sullo schermo prima di allora, che viene completamente smascherato al pubblico quando alle loro impacciate battute vengono sovrapposti dei sottotitoli che riportano i loro veri pensieri. Tra peripezie per cucinare le aragoste, visite in libreria e lunghe file per andare al cinema, non possiamo dimenticare le scene che mostrano la vita sessuale dei due, in particolare quella in cui Annie “si distacca” dal proprio corpo durante un rapporto, rivelando ad Alvy come qualcosa stia cominciando a non funzionare. Ed è la loro sessualità frustrata il centro di queste discrepanze, proprio come, almeno secondo i racconti del protagonista, accadde anche con i suoi due matrimoni.
Io e Annie, prima di tutto, è la storia dell’amore ai tempi della psicanalisi, è il resoconto frammentario di una relazione che crolla su se stessa a causa non di tradimenti o grandi drammi, bensì delle nevrosi che ciascuno dei due riversa sull’altro e che entrambi confessano al proprio strizzacervelli, figura ricorrente seppur sempre fuori campo del cinema di Allen, in un uno split-screen che evidenzia ulteriormente la loro distanza. L’opposizione dei due protagonisti può essere messa in parallelo con quella fra le due città che rappresentano due paradigmi opposti nel panorama americano: New York e Los Angeles. New York è il mondo di Alvy e di Woody Allen in generale (sarebbe addirittura superfluo ricordare qui Manhattan): è una città la cui vita culturale si sostiene sulla decadenza, che si crogiola nel proprio perenne crepuscolo, proprio come lui è perennemente bloccato in una sorta di spirale dalla propria ossessione per la morte, al punto da non riuscire a godersi la vita. Los Angeles rappresenta invece la novità, l’evoluzione, ma al contempo è anche il regno della vanità e della superficialità, un microcosmo ridicolizzato continuamente da Allen, ma da cui Annie, donna vitale e che ha appena iniziato la propria crescita personale e intellettuale, rimane inevitabilmente attratta. Lei, a differenza di Alvy, è spinta verso l’andare avanti, ed è riuscita alla sua prima seduta di psicanalisi a fare progressi infinitamente maggiori di quelli che ha compiuto lui in quindici anni.
Il film stesso ha la struttura di una seduta di psicanalisi, in cui il paziente, ovvero Alvy, parla col pubblico in prima persona, passando liberamente da un argomento all’altro in un unico flusso di coscienza. Anzi, forse più che di flusso bisognerebbe parlare di un grande puzzle: Io e Annie è un film frammentario su tutti i livelli, dalla successione delle scene alla loro stessa costruzione interna. La forma si dissolve, i passanti rispondono alle domande di Alvy come se fossero una sorta di suo super-io, Marshall McLuhan compare dal nulla a zittire un professore ciarlatano, i protagonisti vagano attraverso i propri ricordi come se fossero degli spettatori, a volte dialogando addirittura con i personaggi del passato. Il dispositivo che permette tutto questo è ovviamente il cinema, che costituisce in Allen, e in particolare qui, la macchina che meglio riproduce i meccanismi del pensiero e della memoria, e al contempo anche quella che è più adatta a stravolgerli, come ad esempio nella sequenza iniziale sull’infanzia del protagonista, che viene dichiarata essere proprio esagerata e inaffidabile. Il cinema è quindi pure il regno della distorsione, della sublimazione, del sogno, l’unica fuga dalla crudeltà della realtà: se la vita è una tragedia, allora all’arte resta solo la commedia. Alvy infatti, nello scrivere il suo primo spettacolo, non riesce a resistere dalla tentazione di far concludere con un lieto fine la storia d’amore fra i due protagonisti, in opposizione alla fine di quella fra lui ed Annie, mentre il vero Allen, al contrario, rifiuterà quasi sempre il lieto fine nelle sue opere, e quando non lo fa non è mai esattamente quello che ci si poteva aspettare.
Allen/Alvy, alla luce delle nuove teorie cosmologiche e di conseguenza della disillusione atea così tipica del Novecento, vede e rappresenta un universo insensato, in balia di leggi e forze molto più potenti di noi, e che sarà inevitabilmente destinato alla fine. Allo stesso modo anche la vita umana priva di significato è guidata da un motore incontrollabile e totalmente irrazionale, ovvero l’amore, che prima tira con una potenza incredibile e poi semplicemente si spegne, portandoci a vivere cicli infiniti di speranze e delusioni. Eppure, nonostante tutto il dolore che la fase discendente di questi cicli porta con sé, l’amore è un bisogno innegabile, del quale non possiamo fare a meno. È proprio per questa centralità della sessualità nella vita umana che Allen riesce a rappresentare un’intera epoca, con tutte le sue ansie e le sue tensioni verso il cambiamento, attraverso le lenti di una storia d’amore. Il suo più grande merito risulta quello di essere riuscito ad affrontare questo complesso intreccio di tematiche sia con il suo spirito ironico profondamente e tipicamente ebreo, già visto nelle sue prime deliranti commedie, sia con un’intelligenza e una ricercatezza già preannunciate dal grandissimo Amore e Guerra, ma portate qui al loro vero e proprio apice.
Io e Annie è senza dubbio il più grande punto di svolta della quasi cinquantennale carriera di Allen, la summa completa di un cinema che si è evoluto costantemente, spaziando dal demenziale al dramma bergmaniano, dal thriller al sogno felliniano, e che per almeno due decenni è stato caratterizzato da una libertà formale straordinaria. Negli ultimi anni, in mezzo a lavori decisamente meno riusciti, non sono mancate opere molto soddisfacenti come ad esempio Irrational Man o Blue Jasmine, permeate ancora dai temi comuni a tutta la sua produzione, ma contraddistinte da un equilibrio e una sistematicità formale che le rendono ormai quasi imparagonabili alla frizzante e “folle” originalità del primo periodo, quegli anni Sessanta e Settanta di amori, incomprensioni e insicurezze ancestrali. In fondo, Woody Allen è un uomo di un secolo che, per quanto abbia avuto nella storia dell’umanità un peso che nessun altro secolo ha mai avuto prima d’ora, è ormai passato. Ma è anche vero che il Novecento è stato proprio il secolo del trionfo del Cinema, e che Woody Allen, con la sua incredibile commistione di intelligenza, comicità e sentimento, non può che essere considerato uno dei suoi araldi, grazie ai tanti inimitabili capolavori che ha saputo regalare alla Storia. Una schiera nutrita, in cui Io e Annie si pone a pieno diritto come capofila, stella più luminosa fra le stelle più luminose.
Tommaso Martelli