IO CAPITANO (2023), di Matteo Garrone
Non derivano in alcun modo dall’aspetto puramente cinematografico, i dubbi amletici che restano a ronzare per la testa mentre scorrono i titoli di coda di Io capitano. Il ritorno dietro alla macchina da presa di Matteo Garrone è anzi indubitatamente, nonostante i timori derivanti dalla tematica spinosa e da qualche doloroso colpo a vuoto o comunque ben lontano dai tempi migliori fra le ultime sortite dell’autore, un bel film, capace più volte di sorprendere per il suo respiro epico e per la sua potenza espressiva, per il ritmo incalzante della sceneggiatura co-firmata dallo stesso Garrone con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, e per i picchi emotivi di almeno un paio di sequenze di gioia, di strazio e di sogno fra le dune e le onde. Eppure, ed è da qui che nascono le perplessità nei confronti di Io capitano che come le increspature di un sasso nell’acqua di uno stagno si allargano fino a mettere in dubbio l’intera operazione, è impossibile fare finta di non notare l’evidenza di limiti politici e forse per qualche verso anche etici in cui, come cadaveri nel deserto, ci si imbatte lungo la parabola di emigrazione dei due ragazzini senegalesi attraverso i pericoli di quasi mezza Africa e poi del Mar Mediterraneo messa in scena da Matteo Garrone. Un aspetto, quello politico, che tanto più in un film incentrato su punti così complessi e sensibili non si può considerare del tutto a latere e separato da quelli linguistici, estetici e narrativi che illuminano lo schermo, ma che al contrario porta alla necessità di una ben precisa responsabilità nei confronti di ciò che si racconta e di come lo si racconta, e a poco servono le dichiarazioni un po’ paracule di Matteo Garrone che giura di non aver mai voluto fare un film politico ma semplicemente un nuovo Pinocchio in altro contesto, dopo la sua scelta di un soggetto che invece intrinsecamente implica una presa di posizione e una lettura non superficiale della realtà. E invece, in Io capitano, non sembra esserci un reale stato di necessità nella decisione dei giovani protagonisti di mettersi in viaggio nonostante la vita in Senegal, fra feste di paese e risparmi senza apparente fatica, passando per gli inviti di ogni tipo a non partire, non appaia poi in fin dei conti così malvagia. Come se la loro volontà di raggiungere l’Europa fosse quasi più un capriccio in fin dei conti evitabile di scoperta, di emancipazione e di affermazione personale che una disperata fuga dalla povertà e dai conflitti, salvo poi ritrovarsi, non appena usciti dai confini un po’ patinati del loro villaggio per attraversare Mali, Niger e Libia fino alle porte dell’Europa, esattamente al contrario nel pieno centro del cliché dell’Africa più corrotta, intimidatoria e violenta, fatta di torture ed estorsioni da parte di ogni tipo di divisa. Senza che in questo ci sia da ravvisare, sia ben chiaro, alcun problema di razzismo, sul quale Matteo Garrone e il suo cinema sono da tempo e per meriti pregressi ampiamente al di sopra di ogni sospetto e che anzi pure questa volta sin dal titolo, con l’evidente ribaltamento del ‘capitano’ Salvini, fanno procedere il film nella direzione del tutto opposta, ma al massimo un po’ troppa ingenuità, mentre il sottotesto del «sarebbe stato meglio non partire», così come le approssimazioni un po’ schematiche dei contesti, o la volontà di trasformare in epica e fiaba consapevolmente irrealistica (come del resto già in tanto cinema di Garrone da L’imbalsamatore a Dogman, ma questa volta con in mano una materia ben più urgente e delicata) quello che è un dramma quotidiano politico e umano, porta quasi inevitabilmente a porsi interrogativi sulla legittimità, sull’opportunità, sull’accettabilità o meno di uno sguardo sì profondamente rispettoso e anzi eroico, ma pur sempre occidentale e bianco, su una storia così africana e nera.
Non sarebbe forse stato meglio, viene da pensare specialmente di fronte alla decisione di chiudere il film alla vista delle coste lampedusane, trovando una delle sequenze in assoluto più riuscite ed emozionanti ma al contempo dribblando di netto la (non) accoglienza la cui messa in scena avrebbe costituito un’ulteriore gatta da pelare ma avrebbe anche maggiormente giustificato un regista italiano, utilizzare le medesime risorse produttive per consentire a uno o più autori africani di realizzare film magari più dozzinali, magari con meno consapevolezza visiva e grammaticale e senza dubbio con meno esperienza, ma che siano reale e spontanea espressione della cultura autoctona? Non sarebbe stato meglio investire sulla loro industria cinematografica per farla crescere, in modo da non ritrovarsi ancora con una Mostra di Venezia che in rappresentanza dell’intero Continente Nero dà spazio a un solo film e per di più italiano? E più in generale, specialmente a pochi giorni dalla visione di Finalmente l’Alba! di Saverio Costanzo con cui Io Capitano condivide appunto il concorso dell’80ma Mostra di Venezia, non è forse un’operazione di egemonia culturale (per non dire neocolonialismo) l’imposizione del proprio cinema su una realtà-altra? Come se ciò che il film di Costanzo denuncia e problematizza, ovvero l’ingerenza culturale di un Paese che anziché aiutare nello sviluppo autonomo di fatto fagocita storie e persone di un altro Paese meno potente, il film di Garrone di fatto lo replicasse sul Senegal e in generale sull’Africa, dando sì lavoro per qualche settimana ad attori e maestranze locali, ma solo in funzione di un’altra cultura, di un altro immaginario, di una visione che li racconta per come li può scorgere e capire da lontano, a uso e consumo di un pubblico che a sua volta li vuole riconoscere per come li ha radicati nel pregiudizio. Eppure, se come si diceva sarebbe un errore non rimarcare i dubbi etico-politici che il film di Matteo Garrone solleva dall’intimo della sua stessa natura, sarebbe dall’altra parte altrettanto incorretto, oltre che ingeneroso, ignorare gli istanti di grande cinema che, fra l’incipit in Senegal, una caduta dal pick-up, il magnifico finale e i lunghi momenti a piedi nel Sahara senza poter fare nulla per non vedersi morire di caldo e fatica una donna fra le braccia (per poi continuare a sognarla ancora viva e magari capace di volare, in una sequenza onirica da qualche parte fra il miraggio, il delirio, la stanchezza, il senso di colpa collettivo e la frustrazione), ne contrappuntano l’innegabile magnificenza estetica e l’avvincente narrazione, in cui poco importa di qualche sporadica soluzione frettolosa – in testa le modalità quasi casuali con cui i cugini si ritroveranno a Tripoli dopo essere stati separati dalla polizia di frontiera, o la credibilità solo relativa della guida che costringerà gli esuli a seguirlo a piedi senza soste per tre giorni e tre notti nel deserto: in fin dei conti Io capitano è una fiaba, e in quanto tale è giusto che abbia al centro (anche) la magia universalizzante. Un film con cui raccontare l’eroismo di chi compie un’impresa straordinaria ma soprattutto l’umanità senza la quale non sarebbe mai riuscito a portarla a termine, la volontà di salvare vite, anche a rischio della propria, in mezzo all’egoismo, alla crudeltà e all’indifferenza totale del resto del mondo. Ed è qui che torna il Matteo Garrone grande autore. Quello che sa perfettamente che cosa mostrare e che cosa tenere fuori dal campo (elidendo del tutto le torture dei lager libici sui protagonisti, per esempio, o la purga per trovare i loro eventuali rotoli di banconote infilati con dolore là dove non batte il sole), quello che sa unire le due anime del suo cinema e passare magari anche all’interno della stessa sequenza dal neorealismo della migrazione al fantastico dei riti ancestrali, e poi dal dramma di un abbandono all’avventura di una corsa in jeep, di un deserto da attraversare, o ancora della plancia di un barcone di cui definitivamente diventare «Io capitano». Quello che, a soli sedici anni, sfiderà impaurito ma senza indugio le onde e il silenzio radio dei soccorsi maltesi, quello che saprà prendere le decisioni giuste al momento giusto, quello che farà giungere tutti sani e salvi a destinazione. Un coming of age che culmina con l’urlo di chi ha definitivamente trovato la propria identità umana, per un film di fronte al quale ritrovarsi quasi dicotomici, da una parte felici di rivedere finalmente un Garrone registicamente in grande forma, e dall’altra sempre più convinti che l’abbia ritrovata in un’operazione per molti versi sbagliata, se non proprio inaccettabile per lo meno non del tutto opportuna. Dipende da quale verso si vuole prendere un film con più possibili chiavi di lettura, e da quanto si è disposti ad appassionarsi ai personaggi e alle loro peripezie senza volere troppo scavare e rimuginare su tutto quello che un progetto del genere comporta davanti, dietro e intorno alla macchina da presa. Prendere senza riserve e anzi esaltati, rifiutare magari sdegnati oppure semplicemente nutrire dubbi irrisolvibili per i quali, come si è cercato di spiegare, il film è al contempo bello quanto problematico, paradossale semaforo in tilt con accesi sia il verde sia il rosso, sta a questo punto a ogni singolo spettatore valutarlo personalmente.
Marco Romagna