INVELLE (2023), di Simone Massi
«Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse Anarchia».Fabrizio De André, Amico Fragile
«Viva l’anarchia», chiosa non certo per caso il canto di Gigliola Negri mentre, sulle note della tradizionale A Sante Caserio composta da Pietro Gori, scorrono i titoli di coda di Invelle, letteralmente “in nessun posto” in dialetto marchigiano. Un esordio al lungometraggio ambizioso e profondamente politico, progettato da decenni dall’animatore Simone Massi e realizzato nel suo stile peculiare e originalissimo fra il disegno tradizionale e il rotoscopio, con cui universalizzare la sua nativa Pergola al centro delle campagne di Pesaro Urbino in una straordinaria babele nella quale ogni attore/doppiatore di qualsivoglia provenienza parla (sottotitolato) il proprio dialetto nativo, e in cui tornare a chissà a quanti dettagli autobiografici e ricordi di famiglia per attraversare con l’immaginazione buona parte del Novecento italiano dal 1918 dell’epidemia di Spagnola alla Prima Guerra Mondiale, dalla Resistenza partigiana alla vittoria del 25 aprile 1945 dopo la fuga del re, dall’attentato fascista del 1974 in Piazza della Loggia alla notizia del ritrovamento in via Caetani del corpo di Aldo Moro del 9 maggio ’78. Una polifonia di narratori che si snoda lungo il corso di un’intera vita testimone nella propria quotidianità degli effetti degli eventi del secolo breve, nell’intersecarsi di tre generazioni che nelle loro tre infanzie si passano il testimone dello sguardo sulle differenti epoche, fra l’inutilità di due guerre e i soprusi dei padroni sui contadini, fra i bambini analfabeti da subito al lavoro e l’avvento dell’obbligo scolastico, fra la povertà più disperata e il post-boom con l’abbandono progressivo delle campagne verso le città.
È il personaggio di Zelinda, bimba destinata a diventare madre di Assunta e poi nonna di Icaro, a fare da filo conduttore ai tre blocchi narrativi di Invelle, con il suo foulard rosso, questa volta totalmente scevro della retorica del cappottino di Schindler’s List, che la rende sempre riconoscibile in ogni suo tempo e in ogni suo ruolo sociale nel bianco e nero tremolante dei disegni animati di Massi, in cui solo qualche frutto e qualche oggetto diventa sporadica macchia sparsa di colore, mentre il resto è puro incontro fra luce e buio, monocromia tratteggiata e pulsante che, in costante evoluzione e movimento, entra ed esce dagli occhi e dai sogni dei protagonisti. Un’immagine al contempo minimale e fantasiosa, abbozzata e iperdefinita, che nel suo morphing e nelle sue carrellate in avanti o all’indietro diventa associazione di idee ed ellissi temporale, moto circolare e scambio d’immaginazione, sogno e realtà, genitore e figlio, mondo che cambia sotto i loro occhi. Mentre in audio, sullo sfondo delle vicende familiari, dei matrimoni e dei lutti, delle nuove nascite e della quotidianità della campagna, ma anche dell’apprezzabile scelta di Massi di lasciare del tutto fuori campo il raid dei tedeschi nel casolare di famiglia, chiaro e straziante nel sonoro mentre si preferisce mostrare la neve che cade a ricoprire i campi, la voce di Ascanio Celestini interpreta la lettera alla madre dell’anarchico Sante Caserio giustiziato a ventun’anni, quella di Luigi Lo Cascio legge La casa in collina di Pavese, quella di Toni Servillo recita la Mezzaluna di Federico García Lorca, finché lo scrittore e partigiano Wilfredo Caimmi assoluto eroe della Resistenza marchigiana non riemerge nella sua intervista sulla disillusione postbellica e su come le promesse di un mondo più giusto siano state mantenute solo in parte da chi è andato in Parlamento, e la rabbia di Franco Castrezzari risuona ancora nel suo durissimo discorso contro Almirante in occasione delle commemorazioni in Piazza della Loggia.
Frammenti di Storia, di cultura e di politica, nella fattispecie di Resistenza (ai tempi dell’infanzia di Zelinda contro la fame, a quelli della piccola Assunta contro il fascismo, e a quelli di Icaro contro i padroni che sfruttano il padre e contro il razzismo classista dei bulli a cui personalmente ribellarsi – «ho imparato la violenza dalla scuola, da te, da tutti»), che non si limitano a rimanere sullo sfondo, ma che accompagnano e in qualche modo plasmano la narrazione familiare ed ellittica delle tre infanzie disegnate da Massi e dalla sua ormai nutrita equipe, la perdita di un genitore per l’epidemia e il matrimonio di una sorella, le lettere dal fronte di chi non sarebbe mai tornato e la necessità di occuparsi degli animali nel sogno frustrato di poter andare a scuola, fino al transfert di Zelinda sulla figlia Assunta e il passaggio dagli anni Venti agli anni Quaranta, la possibilità di studiare ma anche le bacchettate dell’insegnante sulle nocche quando qualcuno in aula le ricorda della fuga del re, e soprattutto quel teatrante ambulante che, saltando a piè pari la parte tragica del sole e della caduta, saprà fare appassionare la bambina alla storia mitologica e al sogno di volare verso il mare di Icaro al punto da chiamare così, nei primi anni Settanta, il proprio primogenito, sperando che almeno lui possa finalmente vivere appieno quelle possibilità che due guerre hanno del tutto negato a sua nonna e nettamente limitato a sua madre.
Un viaggio nella Storia senza che sia realmente necessario andare “in nessun posto” per compierlo, ma in cui liberamente vagare da qualche parte fra le memorie, i pensieri e l’immaginario dell’animatore marchigiano in una piccola e almeno a tratti commovente epopea di Resistenza, di sempre nuova lotta contro sempre diversi padroni, ma anche di profonda appartenenza familiare, di orgoglio partigiano e di identità antifascista. Per un progetto d’esordio sulla lunga distanza profondamente personale, ambiziosissimo e sorprendente tanto più in un Paese che non ha mai realmente voluto investire su un’industria d’animazione, visivamente strabiliante e ampiamente in grado di reggere senza alcun tipo di cedimento i suoi novanta minuti anche per l’intelligenza dell’autore di elaborare su classici campi e controcampi la stragrande maggioranza delle parti narrative, limitando ai salti sulla linea temporale e agli scambi generazionali di protagonista i passaggi più ipercinetici e fantasiosi del suo stile visivo. L’occasione con cui Simone Massi, dopo averne curato per qualche anno la sigla che precede ogni proiezione, torna sugli schermi della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, invitato nella sezione competitiva Orizzonti dell’edizione numero 80 con un film che identifica il Male assoluto nel fascio littorio e sa farlo letteralmente sparire e sfaldarsi per poi lasciare deflagrare su uno schermo una bandiera rossa, ma che fra le derive del brigatismo (magnificamente bellocchiano il momento in cui Massi addolcisce la morte di Aldo Moro mostrandolo a letto sorridente per poi farlo dolcemente addormentare già coperto dal lenzuolo nel quale lo ritroveranno nel portabagagli della Renault 4 parcheggiata in via Caetani) e l’accento posto sulle promesse di giustizia e libertà andate progressivamente a disperdersi dopo la Liberazione (con evidente riferimento, anche se per sua fortuna nonna Zelinda si è risparmiata di vederlo, al definitivo deragliamento contemporaneo, con una Sinistra pressoché inesistente e un popolo del tutto disamorato della partecipazione politica) non nega in alcun modo le contraddizioni e le problematicità dell’altra parte, il motivo per cui le ingiustizie non si sono fermate, per cui l’uguaglianza è rimasta un’utopia, ma sembrano semplicemente essere cambiati i contesti e i nomi dei servi e dei padroni, non più in dialetto ma in italiano, non più nei campi ma in altri luoghi e settori. Dinamiche che al di là delle concessioni o meno al popolo vengono perpetrate sempre identiche da un’autorità costituita della quale, oggi come ieri, come domani, non ci si potrà mai fidare: rimane solo la possibilità del rifiuto, rimane solo la lotta individuale per ottenere un’ordine senza più potere, rimane solo l’Anarchia. Rimangono solo il ricordo, il crescere, il riprodursi, l’invecchiare e il morire. Rimane l’affetto reciproco fra una nonna, una figlia e un nipote, e rimane lo strazio poetico di chi già si immagina nuovamente insieme ai genitori e ai fratelli persi decenni prima, o di nuovo accanto all’amato marito. Anime che aspettano Zelinda da qualche parte nell’Aldilà, e che già da qualche tempo, ogni sera, si presentano amorevoli a trovarla ai piedi del letto. Le ultime agrodolci gocce di china sulle tavole di un film semplicemente magnifico.
Marco Romagna