INTRODUCTION (2021), di Hong Sang-soo
A volte sta (anche) nel puro caso, la magia del cinema. In un piccolo dettaglio, in un istante, in un’ambientazione tutto sommato “comoda”, scelta senza allontanarsi troppo dall’albergo. Un luogo che sarebbe semplicemente dovuto essere come un altro, e che in effetti per la stragrande maggioranza degli spettatori continuerà, come sceneggiatura prevede, a non significare altro che un anonimo angolo di Berlino. Ma l’Arkaden non è più un posto normale, per chi lo scorso anno ha vissuto la Berlinale in quei giorni di festosa normalità che nessuno poteva immaginare sarebbero stati gli ultimissimi prima dell’improvviso avvento del mondo pandemico. Da semplice metariferimento fra i tanti metariferimenti di cui è intrisa la carriera di Hong Sang-soo, con un pugno di scene girate – un po’ come già nella Cannes di Claire’s camera – in zona Festival durante la scorsa FilmFestSpiele insieme a parte del cast già nella capitale tedesca per la presentazione di The woman who ran, quel muraglione ben noto a ogni cinefilo ‘berlinese’ che conduce all’ingresso del centro commerciale è suo malgrado diventato un simbolo, per chi in quel finale di febbraio 2020 lo ha affollato fra passione, abbracci e ultimi rilassati assembramenti. È mutato in uno spettro, nel cristallizzarsi della malinconia di fronte a tutto ciò che manca, nell’ultimo luogo prima dell’apocalisse. C’è Berlino, c’è Potsdamerplatz, c’è l’Arkaden da costeggiare nei pochi metri fra il Berlinale Palast e il Cinemaxx. E soprattutto c’è un abbraccio, quel piccolo gesto assoluto che blocca in un dilemma morale il protagonista proprio come l’epidemia ha bloccato tutti noi, fermi e isolati fra precauzioni e divieti. Tanto che non ci sarà nemmeno un bacio, in questo sbocciare del primo amore giovanile, o per lo meno sarà lasciato fuori dal campo della sua rappresentazione sullo schermo. Basta e avanza quello stringersi l’uno all’altro, atto totale come i sentimenti che esprime. E forse non poteva esistere migliore introduzione possibile per la 71ma (più o meno, con un po’ di fantasia) Berlinale, così inedita, difficoltosa e inevitabilmente triste nella sua prima e si spera unica edizione in-absentia, condannata alle porte chiuse e all’online da quell’avanzare pandemico che praticamente tutto ha annullato. Bastano 66 minuti a Hong, lo spazio di qualche sigaretta e un paio di bottiglie di soju a ritmare i suoi pianisequenza, tre mo(vi)menti in bianco e nero attraverso i quali (tentare di) ritrovarsi adulti. Quello di Introduction è un percorso che accompagna alla vita e al cinema, fra la genuinità delle ossessioni di sempre, questa volta proiettate sulle nuove generazioni, e l’amore come unica possibilità per sorpassare lo scarto fra la verità e la finzione. Un cammino fra i sogni e le disillusioni, fra gli auspici e le emozioni, fra le attese e le facciate, e non certo in ultimo fra l’attore e il personaggio, fino a ritrovarsi a uscire bagnati e intirizziti dal mare d’inverno come da un nuovo ventre materno, forse non ancora del tutto maturi ma di certo un po’ cresciuti. Finalmente consci della potenziale falsità del vero e della potenziale verità nel falso. Che poi, a ben vedere, il cinema non è forse sogno? E il sogno, in quanto tale, è classificabile come vero o falso? O forse è solo l’impersonificarsi onirico e ubriaco dei rimpianti, di una nostalgia che avanza leggermente strabica con il suo sguardo colpito da uveite? Un occhio vede distintamente la realtà, l’altro è offuscato. Costretto a soffrire, ma soprattutto a immaginare, e quindi a vedere oltre. L’occhio con cui progettare, fallire, continuare a sognare e finalmente farcela. Nel cinema e nella vita, che poi per Hong sono sempre stati la stessa cosa, due facce della stessa medaglia, o forse sarebbe meglio dire due sorsi – a patto di non ubriacarsi troppo, o forse proprio grazie all’ubriacarsi troppo – dalla stessa bottiglia. Il vero, il falso, l’esistenza e la sua rappresentazione non hanno bisogno di barriere. Solo di sincerità, di sentimenti e di affetto.
Non è dato sapere quale sia il problema che affligge il padre del giovane protagonista Young-ho, che apre Introduction chino sul computer a pregare nel suo studio medico, né per quale motivo abbia convocato a sé il figlio. Quello che conta è l’attesa infinita dell’adolescente nella sala d’aspetto, mentre il padre, triste e divorziato, pratica l’agopuntura a un famoso e facoltoso paziente, attore leggendario nell’ambito del teatro reduce però dal ruolo di protagonista in un film. Sarà proprio l’attore, e non il padre, a far scattare nel giovane la scintilla per tentare (invano?) di diventare attore, ma questo lo si scoprirà solo più tardi, nel nuovo incontro/scontro fra i due, questa volta in presenza della madre, che aprirà il terzo e ultimo capitolo. Eppure non è tempo perso, quello passato dall’inetto Young-ho fra la sala d’aspetto e la sigaretta incenerita sull’uscio. È un tempo che serve per il cementarsi di un rapporto per lui fondamentale, non tanto con il padre che sembra non curarsi più di tanto del figlio, ma con la sua segretaria/infermiera, figura sostitutiva fondamentale di una famiglia non più unita. Una figura di tenerezza e sincero affetto, quello che forse è sempre mancato a Young-ho nel suo difficoltoso (non ancora) crescere. È per questo che impulsivamente, non appena la fidanzatina Juwon si trasferisce a studiare a Berlino, decide di raccontare una balla alla madre e volare all’improvviso nella capitale tedesca, dove «le serrature girano al contrario» rispetto alla Corea. Senza un progetto, senza un reale motivo al di là di qualche sogno destinato a non realizzarsi, spinto solo dalla necessità di quell’abbraccio sotto l’Arkaden diventato poi per caso, nella sfacciataggine della sua normalità e della data delle riprese, l’emblema più straziante e genuino della Berlinale pandemica. Un abbraccio che è al contempo il sentimento e la sua messa in scena, in quella città che rappresenta in qualche modo un passaggio di consegne generazionale nel cinema di Hong, il perpetrarsi del vero/falso che da sempre sta alla base del senso della sua vita e delle sue opere come nuova introduzione per poter sbocciare. Non è certo un caso, in tal senso, che Kim Min-hee interpreti un’artista ormai di base in Germania (dove la ‘vera’ Kim Min-hee si era rifugiata dalla gogna mediatica all’inizio della sua relazione con il regista, come del resto già raccontato in On the beach at night alone presentato proprio alla Berlinale nel 2017) pronta a ospitare la giovane Juwon per tutto il corso di studi. E non è un caso che proprio un simile abbraccio, fra due giovani attori chiamati a recitare – e quindi fingere – un sentimento, sarà quel blocco morale che di fatto sancirà la fine anticipata della carriera d’attore di Young-ho. Un giovane innamorato, incapace a tradire anche nella finzione colei dalla quale sarà tradito e abbandonato, per poi reincontrarla, magari a sua volta abbandonata dal marito tedesco fuggito con un’altra coreana, solo nell’ambito del sogno, di quella finzione del subconscio che spesso contiene tutta la verità che manca al reale. Proprio come spesso, nel cinema di Hong Sang-soo, la contiene l’alcool. «Bevete, ma stando attenti a non ubriacarvi», sarà l’avvertenza dell’esperto e navigato attore ai giovani. Per poi inalberarsi di fronte alle loro remore morali, di fronte alla loro incapacità di capire il senso più profondo del cinema. A costo di esagerare nell’attaccarli, ma forse è l’unico modo perché capiscano la necessità di accettare il sogno come parte fondamentale della vita, e quindi la sincerità nella rappresentazione dei sentimenti. Un po’ come se l’occhio uveitico, quello sfocato della finzione, potesse vedere ancor più distintamente di quello sano. In fondo è tutta una questione di imparare a guardarsi, fra gli innamorati come fra le generazioni. Dal non-sguardo di un padre assente a quelli amorevoli di due madri – di lei e di lui – che vorrebbero aiutare i figli e (non) ci riescono, fino all’immaginarsi senza vedersi e all’ultimo guardarsi senza salutarsi, senza nemmeno essere sicuri di essere stati visti. La madre sul balcone del suo lussuoso Hotel (by the river) vista mare, il figlio in spiaggia con l’amico che l’ha accompagnato e che lo sostiene. E poi le onde gelate da cui farsi sommergere, come il battesimo di un nuovo inizio. Una nuova Introduction al mondo, piccola e profonda, dolce ed essenziale, sempre più minimale nelle sue reiterate sottrazioni eppure stratificata nel suo ossessivo riflettere fra la teoria e l’esistenzialismo, il cui finale è ancora tutto da scrivere. In attesa del prossimo abbraccio. Magari in una Potsdamerplatz di nuovo piena, di nuovo “vera”, di nuovo innamorata del suo Cinema.
Marco Romagna