INSHALLAH A BOY (2023), di Amjad Al Rasheed
Sarebbe esercizio tedioso e profondamente ingeneroso mettersi a questionare sui suoi piccoli limiti, parlando di Inshallah a boy. Un’opera prima, è vero, forse non ancora del tutto matura nella tecnica e in alcune scelte di messa in scena, ma non per questo meno ambiziosa o interessante, dove poco importa che ci possa essere qualche istante non ancora oliato alla perfezione: quello che conta è come il film sappia innestare nel suo avvincente congegno narrativo di ispirazione farhadiana e nel suo sguardo à la Dardenne una ben precisa potenza politica, che parte dalle storture patriarcali della legge di successione attualmente in vigore in Giordania per immaginare la vicenda di una donna costretta a lottare contro i soprusi morali ed economici dell’intera società islamica. Un film, il primo giordano in assoluto a vedersi aprire, nella Semaine de la Critique 2023, le prestigiose porte del Festival di Cannes, con cui il trentaseienne Amjad Al Rasheed sceglie di esordire al lungometraggio mettendo in scena un dramma realista che come una spirale progressivamente stringe sempre più al collo della sua protagonista il cappio delle disuguaglianze di genere, fra le continue e sempre meno gentili intimidazioni del sistema e il crescente rifiuto di lei che sfida apertamente le imposizioni e le ingiustizie, che non si piega, che continua a resistere con la dialettica e con i necessari sotterfugi, con i sogni e con le speranze, con l’amore incondizionato per la sua bambina e con la sua profondissima dignità. Con l’intrinseca fierezza femminista della sua parabola, che in qualche modo sembra voler correre fianco a fianco con le proteste in corso nel vicino Iran, e più in generale nei Paesi arabi. Non è un caso in tal senso che Inshallah a boy, co-scritto con le sceneggiatrici Delphine Agut e Rula Nasser, si apra su un reggiseno. Nawal, la sua proprietaria che dopo aver indossato l’hijab d’ordinanza lo guarda dalla finestra, cerca di prenderlo dall’alto con un bastoncino dopo che, caduto dal suo stendibiancheria, si è fermato su un filo intermedio, ma finirà per farlo precipitare in strada, proprio di fronte a un uomo dal quale nascondersi per la vergogna. Eppure basta che arrivi la sera perché, fra le mura domestiche, la sua timidezza si trasformi in provocante malizia, prima di fronte allo specchio nei suoi lunghissimi capelli corvini, e poi entrando nel letto coniugale. Solo che il marito, nonostante condivida la volontà della moglie di sfruttare ogni giorno del periodo fertile per tentare di concepire il secondo figlio, quella sera è troppo stanco per bissare la notte precedente. Stanco al punto che, il mattino dopo, né Nawal né la loro bambina riusciranno a svegliarlo.
Una morte improvvisa da cui Al Rasheed, dopo pochissimi minuti del suo film, inizia ad aprire una crepa destinata a crescere ed espandersi sempre di più, in un Paese nel quale una moglie vedova, in mancanza di figli maschi, di testamenti o di contratti pre-matrimoniali regolarmente firmati, registrati e depositati, si ritrova sostanzialmente priva di diritti di successione di fronte alla famiglia del defunto marito, specialmente in caso di piccolo debito ancora da estinguere di lui nei loro confronti. Non conta avere precedentemente venduto i propri gioielli per comprare casa insieme e avere pagato con il proprio lavoro come infermiera la stragrande maggioranza delle rate del mutuo, se non ci sono le prove delle transazioni economiche da moglie a marito. La legge impone che il fratello del defunto, viscido nel proporre aiuti alla cognata mentre la pugnala alle spalle per vie legali, possa disporre a piacimento dei suoi averi, fra cui la casa, la macchina che Nawal non sa guidare ma non vuole assolutamente vendere, potenzialmente perfino la custodia della bambina, che a sua volta in quanto femmina non ha diritto all’eredità. Solo un figlio in arrivo potrebbe ribaltare la situazione, configurandosi, se maschio, come parente più prossimo e quindi erede dal momento stesso della nascita. A costo di inventarselo più o meno di sana pianta di fronte a un giudice, e poi di doversi inventare il modo per dimostrarlo, mentre a Nawal piovono addosso notifiche, ingiunzioni, convocazioni in tribunale che le chiedono i test di gravidanza, la scoperta del licenziamento del marito qualche mese prima della sua morte, un passaggio in auto che incattivirà ulteriormente il suo nemico, quarantott’ore senza sua figlia, persino la perdita del lavoro per avere osato agire secondo coscienza in un frangente che nulla c’entrava con la sua assistenza all’anziana malata di Alzheimer. E soprattutto un’altra donna ricca e cristiana, più moderna ed emancipata di let eppure allo stesso modo vittima anche fra le mura domestiche di un’altra declinazione della medesima tirannia, con cui vicendevolmente aiutarsi a dribblare le storture patriarcali e quelle matriarcali ma figlie della medesima cultura, fra le analisi del sangue a nomi invertiti e l’essenziale supporto in un aborto necessariamente clandestino: l’ennesimo diritto che dovrebbe essere inalienabile, e che invece la legge (non solo) giordana nega a tutte le donne, di ogni cultura, di ogni ceto e di ogni religione. Un film che non lascia mai realmente deflagrare la tensione, ma preferisce caricarla costantemente, goccia a goccia, sempre più asfissiante, sempre più avviluppante, per una resistenza sempre più strenua in cui trovare il modo per non perdere tutto e ritrovarsi in mezzo a una strada. Passando per un collega fisioterapista innamorato da accorgersi di ricambiare ma dal quale dovere per ora fuggire, per un fratello che non riesce e in realtà non vuole dare il supporto sperato, per un’anziana vicina con cui crescere la bambina e far scontrare le visioni delle diverse generazioni. Passando per il classismo e i soprusi della ricca datrice di lavoro, per l’inusitata tenerezza dei momenti con la paziente malata, per una borsata ben assestata a un molestatore, per la tentazione (subito rientrata, del resto non esistono nemmeno sue foto senza velo) di farsi mettere incinta trovando qualcuno a caso su Tinder. Poi sì, è vero, qualche scelta del punto di vista, qualche scavalcamento di campo non giustificato e qualche raccordo di montaggio non funzionano a dovere, c’è forse qualche ripetitività ed eccessiva esasperazione nello schema, e il pur bel finale è tutto sommato prevedibile sin dalla prima sequenza. Ma il film c’è, e sa dire perfettamente quello che vuole dire, fra denuncia sociale e messaggi emancipatori, fra leggi da cambiare e soprusi col sorriso, fra tenuta narrativa e letture non scontate del contemporaneo mediorientale. Il resto è solo una questione di tempo e di fiducia, di saper aspettare che si compia definitivamente il percorso di crescita e completa maturazione di Amjad Al Rasheed, che gli si allarghino le spalle, che impari a migliorarsi esercitandosi sul campo (che poi nient’altro è che il set) film dopo film. L’autore c’è già, evidente e pienamente politico, con una penna già sicura e uno sguardo ben chiaro. Per il suo definitivo prendere il volo dopo questo suo più che buon film d’esordio ha solo bisogno di continuare a guidare la macchina (cinema) ancora un po’. Sarà un piacere continuare a viaggiare con lui.
Marco Romagna