INMUSCLÂ (2023), di Michele Pastrello
«Ciò che si ripete è ciò che non si può ricordare, è ciò che non si osa pensare;
ciò che si ripete è l’incontro (mancato) con il reale».Jacques Lacan
«L’essere umano plasma inconsciamente variazioni di un tema originario che non è stato in grado né a superare né a convivere: egli cerca di dominare un fenomeno che nella sua forma nodale gli è indicibile, incontrandolo perpetuamente». Una frase, presa a prestito dagli scritti dello psicanalista Erik Homburger Erikson, con cui il sempre indipendentissimo regista veneto Michele Pastrello innerva sin da subito di senso metaforico la ricerca solitaria che mette in scena lungo la mezz’ora abbondante del suo nuovo e affascinante Inmusclâ. Un girovagare senza meta lungo l’eterno giorno invernale di un viaggio che in realtà è dentro se stessi, nelle proprie mancanze e nei propri traumi, nelle proprie ferite e nei propri fantasmi, nelle elaborazioni e nelle trasfigurazioni di un dolore ormai così lontano nel tempo da sembrare un mostro indistinto di muschio e terra, eppure ancora così vicino e sanguinoso nelle ferite mai del tutto rimarginate che sembrano riaprirsi all’improvviso, ripetendosi giorno dopo giorno sempre diverse e sempre uguali. Per un film, miracolosamente giunto da poche settimane sul catalogo Mubi nonostante la sua durata e la sua forma ostinatamente fuori dagli standard, tanto orgogliosamente lontano da ogni prassi produttiva, italiana ma non solo, quanto sfacciatamente libero e complesso nella sua ibridazione lirica ed atmosferica di generi e di stratificazioni, di misteri e di ferite, di drammi psicologici e di enigmatiche proiezioni dell’irrisolto davanti e dietro uno specchio. Ma anche di immagini e di poesia, di suoni e di silenzi, di paura, di dolore e (forse) di catarsi (o forse no, forse rimarrà solo l’eterna ripetizione, intrappolati nell’eterna e vana ricerca della propria verità più intima e del senso stesso della propria vita). Più estremo che mai nella sua autarchia, complice forse l’aver girato in piena pandemia in una zona rossa totalmente deserta, Pastrello sceglie questa volta di realizzare il film quasi interamente in due, insieme alla musa, co-sceneggiatrice e sorprendente attrice Lorena Trevisan per la stragrande maggioranza delle inquadrature sola in scena nella neve, e di spostarsi di una manciata di chilometri dal suo Veneto per farne il primo audiovisivo di sempre realizzato in lingua clautana, variante del dialetto friulano parlata esclusivamente in tre minuscoli paesini di montagna in Valcellina – anche se, nell’assenza di dialoghi spezzata unicamente dalla voce fuori campo della poetessa ottantaduenne Bianca Borsatti, le uniche parole udibili in Inmusclâ sembrano quasi provenire dal futuro, come se la stessa protagonista ormai anziana tornasse per un’ulteriore volta alle medesime ferite d’infanzia già riaffrontate da adulta. Del resto, come recita lo stesso sottotitolo del film, Ugni mâl nol à scrupol da tornâ, letteralmente Ogni male non ha scrupolo a ritornare, e anzi costantemente si replica sempre diverso nelle percezioni mentre progressivamente viene inghiottito dalle nebbie della memoria e dai meccanismi psicologici di autodifesa.
Vaga silenziosa per i paesaggi innevati il personaggio senza nome di Lorena Trevisan, un volantino missing dopo l’altro alla ricerca sempre più ostinata di qualcuno o forse di se stessa, di un ricordo che l’ha segnata, di un’età oramai perduta, o per lo meno di un perché. Cammina su percorsi impervi dalla diga fino all’aperta Natura e poi ancora fino alle rovine residuali di un’umanità sconfitta, si punge con i rovi, torna alle sue paure da bambina, cade, si rialza, si risveglia. Tampona come può il sangue delle ferite che si (ri)aprono all’improvviso sul suo corpo, mentre costantemente rivive le proiezioni distorte di ogni suo trauma, speculari come i confini fra il bianco e nero e il colore, fra diversi mondi e diversi sogni, fra diversi livelli di consapevolezza, fra una variante e l’altra di un tarlo inestirpabile e doloroso. Fra oggi e ieri, fra l’adulta e la bambina, fra la memoria ormai corrotta e l’origine del (proprio) male (di vivere). Come una novella Alice in cui però non c’è alcuna meraviglia nel Paese al di là dello specchio, ma solo i fantasmi ormai sperduti nella rimozione e nell’oblio di una ferita sempre aperta, una dimensione di reminiscenza infantile fatta di incubi e oscurità, di uomini neri (o forse sarebbe meglio dire uomini-albero) e di piccole (o grandi) Cappuccetto Rosso braccate dai lupi. Non sembra conoscere il luogo in cui si trova né la reale natura del suo dolore, la protagonista, eppure conosce perfettamente i suoi sanguinamenti, e si muove come se qualcosa dentro di lei, un istinto o magari un vago ricordo, le suggerisse sempre la direzione, il punto cardinale da seguire ben al di là della bussola (o delle bussole) da polso, quella di ieri e quella di oggi, quella al suo posto e quella (ri)trovata, quella di un ricordo e quella di un ritorno, come doppiezze parallele che forse non troveranno mai una soluzione all’enigma, ma solo una tregua, un’accettazione, una presa di (non) coscienza. Coordinate di un’ambientazione post-apocalittica, fatta di bianchi in contrasto su altri bianchi apparentemente mai baciati dal sole e di arbusti tenebrosi, in cui Pastrello innesta con intelligenza, ma soprattutto con straordinaria eleganza visiva e di messa in scena, elementi che vanno dal melodramma al fantastico fino alla fiaba, dall’horror psicologico alla pura sperimentazione visiva, dalla vertigine incubale lynchana alla dimensione recondita e filosofica del rapporto uomo-Natura già al centro del precedente Little Child. Come in un (sempre più) raffinato ripercorrere tutto il suo cinema, dal rapporto con il territorio (e con l’horror, anche body) di 32 e Ultracorpo fino all’esistenzialismo intimo e misterico (ma anche musicale) dei vari Andromeda, Nexus e Awakenings, passando per il videoclip vero e proprio di Afloat realizzato nel 2014 per Richard J Aarden (e che cos’è del resto in Inmusclâ l’unione dei suoni della Natura con i tappeti ambient-noise di Meydän, John Bartmann e Ob-Lix, ma anche con il quieto sillabare della voce off in clautano, se non una costante partitura sonora che dà ritmo e senso alle immagini?). Come pure dei suoi primi lavori Pastrello riprende in qualche modo la stratificazione politica, forse meno esplicita che nella disarmata lettura delle iniquità del mondo del lavoro di InHumane Resourcers, ma non per questo meno resistenziale nelle già citate modalità (auto)produttive di totale indipendenza a (più o meno) zero budget e soprattutto nella scelta ben precisa di un luogo e della sua minoranza linguistica in via d’estinzione, della quale lasciare almeno una traccia, un vagito, una musicalità, l’eredità inestimabile di una cultura. L’ennesima tappa di un percorso con cui il regista d’origine veneziana, ma ormai da tempo residente nella marca trevigiana, si spinge sempre più a fondo all’interno del suo immaginario e della geografia che lo circonda, proteso alla ricerca dell’insondabile, di un simbolo, di un mistero, quello della vita umana e della Natura, del quale forse non può nemmeno esistere una risposta univoca. Si può solo continuare a cercarla, giorno dopo giorno, sogno dopo sogno, immagine dopo immagine, film dopo film. Resistenza dopo resistenza. Nel silenzio assordante di chi – dai piani alti di Festival e produzioni – dopo quasi vent’anni ancora continua a ignorare i lavori di Michele Pastrello, il suo evidente talento nel maneggiare i linguaggi del cinema, la sua capacità di fare proprie e stratificare in immagini le riflessioni di Freud, Cioran e Lacan senza che gli sia necessario far pronunciare agli attori nemmeno una parola. Forse il vero mistero è proprio questo. O forse, per quanto sia profondamente ingiusto, non è affatto un mistero. Sono semplicemente consapevoli del fatto che non riuscirebbero mai e poi mai ad appiattirlo, a standardizzarlo fino a renderlo innocuo.
Marco Romagna