INLAND/MESETA (2019), di Juan Palacios
«Dove siamo?», chiede un’anonima voce di donna mentre l’aereo sorvola il gigantesco altopiano iberico della Meseta. Il film è praticamente finito, la landa imprecisata che nella primissima inquadratura zenitale in bianco e nero sembrava quasi un fumo di totale astrazione ha raggiunto ora la concretezza, i colori e la visibilità di una sterminata pianura ondulata perfettamente illuminata dal sole, eppure non è ancora possibile dare una risposta, e forse non lo sarà mai. Si può solo osservare dall’alto, ancora una volta, guardando verso la Meseta un po’ più chiaramente rispetto all’inizio, ma consapevoli dell’impossibilità di decodificare fino in fondo una terra così immutabile eppure mutevole, così accogliente eppure sempre meno ospitale, così aspra eppure dolcissima in ogni suo paesaggio, così radicata nella memoria eppure così lontana dallo sviluppo della popolazione e dalle mete del turismo. Una terra lontana centinaia di chilometri da tutto, ormai fuori dalle rotte della moderna rete autostradale spagnola e sempre più fantasma nelle sue vie deserte e nella sua penuria di abitanti. Una terra che si può solo assaporare risalendo le generazioni, immergendocisi per cercare di capirla e di viverla. E nel partire dallo spazio, a volte, non si può che giungere al tempo. Un tempo che è incapsulato nello spazio e che con lo spazio si ibrida, che ne è inevitabile (contro)parte (dialettica) nella continua trasformazione del mondo, che ne è radice, nostalgia, appartenenza, costante moto, e quindi più intima essenza. Un tempo che è quello che con la tecnologia cambia le più antiche abitudini e con la meccanizzazione cancella i più antichi lavori agresti, un tempo che è quello che con l’urbanizzazione svuota e progressivamente desertifica fino quasi al villaggio fantasma le zone in cui sono nati e cresciuti i padri e i nonni, ma anche un tempo di contraddizioni e ribaltamenti, in cui gli opposti si attraggono, in cui l’uomo miete col trattore per poi tornare a casa e simulare la guida di un altro trattore sui videogiochi dello schermo televisivo, in cui di fronte all’industria c’è ancora chi si toglie calze e scarpe per pestare l’uva come facevano gli antichi, in cui gli smartphone portano al vecchio pescatore l’illusione di un ego virtuale con cui girare il mondo, conoscere e magari amare persone distanti, e alle uniche due giovani ragazze rimaste in tutta la landa portano l’applicazione con cui giocare a Pokemon GO, ma nessuno sviluppatore ha mai pensato di localizzare un solo Pokemon sulle strade polverose e ormai pressoché disabitate della Meseta. Anche i “moderni” CD, del resto, sono ormai diventati strumenti obsoleti, più utili se legati a un albero alla stregua di spaventapasseri che in un lettore, e alla tovaglia ancora pazientemente lavata al fiume corrisponderà ora e per sempre l’oblò di una lavatrice da cui ritirare il resto del bucato.
Ma il tempo dell’affascinante Inland/Meseta, opera seconda del giovane regista basco Juan Palacios che trionfa a Pesaro 2019 ottenendo sia il premio Lino Micchichè conferito dalla giuria professionale capitanata da Amir Naderi sia quello attribuito dalla giuria studenti, non è solo quello apertamente o simbolicamente narrato dalla terra e dai suoi ormai sparuti abitanti, che contano quasi come in una preghiera pagana le case ormai chiuse per sempre, che ricordano gli antichi fasti dell’improbabile duo country di fratelli camionisti, che alternano punte di nostalgia per i tempi semplici dei vecchi mestieri e per le tradizioni di pubertà scomparse al sollievo per essersi lasciati alle spalle i tempi bui della retorica del “peccato” e dell’oscurantismo franchista, oppure che sognano di viaggiare per Roma, Parigi e New York fino al lago Titicaca ma sono perfettamente consapevoli di dover portare ogni giorno le pecore al pascolo. Sono anche – e forse soprattutto – i quattro anni di riprese necessari per la realizzazione, fatti di ripetuti ritorni nella terra delle prime vacanze estive dove abita(va)no i nonni fino a entrare progressivamente, una mano tesa dopo l’altra, a fare parte della comunità. Così come il tempo di Inland/Meseta è anche la circolarità del film, che inizia e finisce con le vedute aeree incorniciate dalla marcia quotidiana del gregge fuori e dentro i recinti, ed è anche, molto più semplicemente, la durata di ogni singola inquadratura, così fortemente estetica e pastellata eppure così lontana da qualsivoglia stereotipo agreste o da qualsivoglia estetizzazione patinata da cartolina, lasciata a quel fotografo che fa ripetere le scene ai suoi attori finché lo scatto non lo soddisfa. Esattamente all’opposto, Juan Palacios filma la realtà lasciandola scorrere, senza mai prevaricarla, senza mai apertamente ricostruirla, ibridando la pura osservazione con elementi di (non) finzione fino a estendere al pubblico l’invito ad addentrarsi nella terra e nel popolo in cui, fra tempo e luogo, fra uomo e natura, affondano le sue radici. In un viaggio mesmerico, ipnotico, sempre più totalizzante.
È una ricerca di se stesso, quella di Palacios, innestata in una mappatura fatta di tappe, di ombre, di corpi e di volti che appaiono e quasi scompaiono nel paesaggio, di incontri accidentali che, via via più intimi, suggeriscono i tasselli di cambiamento nell’apparente immutabilità della piana. Una ricerca fatta di falsi raccordi sui movimenti a schiaffo che uniscono le pietre del mosaico fra (non) stacchi e (non) pianisequenza, fatta di giorni e di notti, fatta di sole e di stelle, fatta di uomini e di animali, fatta di paesaggi e di tradizioni, fatta di silhouette e di telecamere a infrarossi, fatta di ibridazioni fra reale e virtuale, fra ieri e domani, fra eterno e moderno. Una ricerca fatta di dettagli, simmetrie, centralità, immagini che diventano simbolico significante di infiniti e inevitabilmente contraddittori significati, in una certosina e personalissima indagine lirica, visiva e formale che mai soverchia l’uomo o la terra che l’uomo (forse ancora per poco) abita, ma che al contrario mette al loro servizio tutto il suo potere di seduzione narrativo ed emotivo. In un film-saggio votato alla ricerca dell’appartenenza, della mentalità, del popolo, delle analogie e delle differenze fra chi convive la stessa terra interna e dimenticata, ma anche della Storia, del delicato “ménage à trois” fra essere umano, natura e tecnologia, e inevitabilmente del tempo che scorre sempre uguale eppure sempre diverso, mostrando magari solo a lunga distanza come l’intervento che nel corso dei millenni ha eroso la montagna rendendola altopiano non abbia mai concluso nemmeno nell’antropologico e nel quotidiano la sua opera di inarrestabile trasformazione.
Ma non è certo un caso che proprio quando i paesani iniziano a sfondare la quarta parete e a dialogare direttamente con la macchina da presa, come a certificare il definitivo ingresso di Palacios e del suo cinema nella comunità, entri quasi come un gigante mitologico l’antenna della radio a ricordare come all’idillio con la natura e con i luoghi incontaminati, all’immutabilità delle tradizioni e al valore della semplicità di campagna, possa anche corrispondere la non accettazione degli autoctoni verso chi non ci è nato, la difficoltà a integrarsi con una mentalità troppo chiusa non per cattiveria, ma per innato sospetto, per mancanza di fiducia, per eccesso di difesa. E il paradiso può diventare inferno, o per lo meno zona ancor più complessa e impenetrabile, presa di coscienza della mancanza di una possibile e univoca soluzione. Chi, in una generazione o nell’altra, ha deciso di andare via, non potrà mai davvero tornare. Destinato, come inevitabilmente Juan Palacios, a una coesistenza quasi bipolare fra legame fortissimo e inestirpabile con la terra d’origine e la consapevolezza di quel sentimento di paura dell’estraneo che è propria di ogni paese e ancor più di una zona centrale eppure ai confini del mondo, inversamente proporzionale al numero di abitanti.
È il cortocircuito di Inland/Meseta, quello che riapre alle più ancestrali paure, all’inquietudine, all’incubo condiviso di un paese in via di estinzione, ma anche alla grande e piccola resistenza quotidiana di chi rimane, alla meraviglia delle tempeste di sabbia all’orizzonte durante il tramonto, alle porte ormai per sempre incatenate di quei nomi che faranno per sempre parte della memoria ma mai più delle vite, al ritorno delle pecore all’ovile. È finita un’altra giornata, e la Meseta è ancora lì, sconfinata, imperscrutabile, ammaliante, vicinissima eppure a distanza. Finalmente concreta come le immagini che ne cristallizzano la memoria impedendone la dispersione e la definitiva disgregazione, ma non per questo meno sfuggente, ambigua, fantasmatica. E proprio per questo affascinante. «Dove siamo?», chiede l’anonima voce femminile mentre l’aereo sorvola l’altopiano della Meseta. Da nessuna parte, o forse ovunque. Nella Storia, nella memoria, nel guardare alla natura, nelle radici, nello scavare in se stessi. In ogni coesistenza di tradizione e innovazione, in ogni desertificazione del fertile, in ogni terra che si svuota, in ogni tenera nostalgia, in ogni istante di semplicità, in ogni (im)percettibile cambiamento. E ovviamente nel silenzio di Juan Palacios. Un silenzio che dice tutto, più forte di qualsiasi parola. Hanno già parlato le immagini, preziose, potenti e profonde come il suo sguardo.
Marco Romagna