INLAND EMPIRE – L’impero della mente (2006), di David Lynch
«Siamo come il ragno. Tessiamo la nostra vita e poi ci muoviamo insieme in essa. Siamo come il sognatore che sogna e poi vive nel sogno. Questo è vero per l’intero universo.»
[frase tratta dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, una delle 14 Upaniṣad vediche, ovvero testi filosofici sacri in indiani tramandati oralmente dal nono al quarto secolo a.C.]
Piccola nota personale (che non riesco a frenarmi dall’inserire): INLAND EMPIRE è uno dei film a cui sono più legato, emotivamente, proprio a livello di crescita cinematografica. Uno dei primi grandi film che ho visto e che ho imparato ad amare, senza capirlo. Era diventato, nel mio mondo, anni fa, quasi un rituale settimanale: una visione ogni giovedì pomeriggio, invece di studiare, in un vecchio televisore malfunzionante che sopra le immagini del film mostrava, distorte con colori fuori contesto, immagini dai programmi televisivi che in contemporanea apparivano nell’ultimo canale Mediaset su cui mi ero sintonizzato. Un particolare, questo, che rendeva il film, se possibile, più affascinante, enigmatico, seducente, o semplicemente strano. INLAND EMPIRE è quasi sicuramente il film che ho visto più volte, e non è un caso se ne scrivo proprio ora: tra pochi giorni sugli schermi televisivi americani e sugli schermi del Festival di Cannes appariranno i primi episodi della terza stagione di Twin Peaks, ritorno alla narrazione audiovisiva per David Lynch dopo più di 10 anni di cortometraggi fuorvianti, musica elettronica e sperimentazioni multimediali. E Lynch, che recentemente ha detto che non guarda film da 5 anni e che al massimo ha seguito delle serie TV (diventando portavoce della discutibile presa di posizione che vede le serie come il nuovo media video predominante, come ha detto recentemente in un’intervista su Rolling Stone) è un regista importantissimo, non solo per la Storia del cinema, ma anche per il mio processo personale attraverso i meandri del misterioso mondo-cinema che ormai occupa abbondantemente il mio tempo e le mie riflessioni, sul futuro, sull’altro e sui rapporti con essi. Forse, a vuoto. INLAND EMPIRE dunque per me è questo, forse più di ogni altro film davvero importante del mio percorso da spettatore – sempre immaturo, sempre pronto a imparare qualcosa. È un film che, per quanto tortuoso, contorto e alienante, percepisco come qualcosa a cui sono affezionato come a un luogo in cui ho vissuto per anni. INLAND EMPIRE è casa mia, lo conosco a memoria e a ogni visione ci entro dentro proprio come entro nei miei sogni ogni notte. Quella che segue dunque la potete porre un po’ come una lettera d’amore al film in generale, ma anche come un tentativo di razionalizzazione di anni e anni di emozioni e di riflessioni che comunque, forse, svuotano d’intensità la mia esperienza col film. Per affondare “in acque profonde” e risalire lontani dallo schermo, ma troppo persuasi dalla sua luce per riuscire ad abbandonarlo. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta, come direbbe Michael Ende.
Ci sono vari film che tornano e ritornano quando trattiamo la materia del cinema in digitale e della crisi formale ed estetica che esso sembra spesso voler commentare, e molti di essi sono recentissimi a causa dell’universalizzazione delle paure degli artisti cinematografici in un panorama palesemente piombato in una divisione importante: tra questi non possiamo non nominare, ad esempio, per vari motivi ben distinti, opere come The Canyons (2013) di Paul Schrader, Maps to the Stars (2014) di David Cronenberg, Spring Breakers (2012) di Harmony Korine, Les beaux jours d’Aranjuez (2016) di Wim Wenders, 11 minuti (2015) di Jerzy Skolimowski, Addio al linguaggio (2014) di Jean-Luc Godard, By the time it gets dark (2016) di Anocha Suwichakornpong, Inside Out (2015) di Pete Docter, Knight of Cups (2015) e Song to Song (2017) di Terrence Malick. E poi ovviamente Lo and Behold (2016) di Werner Herzog, il film che più ha razionalizzato, spiegato scientificamente ed esplicitato il motivo di questi timori, con il fantasma dell’evento di Carrington, promemoria dell’effimerità del, passatemi il termine, “nuovo cinema”. Film, questi, tutti diversi l’uno dall’altro, tant’è che alcuni contengono comunque, in diverse quantità, pure riprese in pellicola. INLAND EMPIRE di tutti questi film forse è un po’ il padre, arrivato mentre il cinema in digitale ancora si stava lentamente diffondendo, tra la seconda trilogia di Star Wars e il Dogma 95, tra Michael Mann e Soderbergh, con in mezzo Arca russa (2002) di Sokurov e pure Robert Rodriguez. INLAND EMPIRE infatti è quasi sicuramente il film più sperimentale di Lynch e una delle produzioni hollywoodiane più povere nei mezzi e nell’esecuzione: girato in 1.85:1 con una Sony DSR-PD150 (formato negativo Mini DV), con una qualità d’immagine che pure in Blu-Ray o in sala può apparire fuori contesto, il film, a livello perlomeno di distribuzione e produzione “mainstream”, ha un approccio rivoluzionario alla forma e alla narrazione, riuscendo a essere in qualche modo suggestivo e avvincente nonostante le riprese molto lontane dall’alta definizione e la storia altrettanto distante dall’essere una vera e propria trama comprensibile. David Lynch, con INLAND EMPIRE, ha in realtà costituito un capitolo per la propria filmografia molto simile a quello che fu negli anni ‘70 Eraserhead; nel senso che il regista nel 1977 ha bucato lo schermo della cultura mainstream con un qualcosa di estremamente underground che, tuttavia, poteva avere appigli culturali di qualche tipo anche nell’ambiente controculturale cinematografico anglofono (v. Kubrick, che si appassionò tanto alla non-storia surreale di Henry Spencer da mostrarla quotidianamente agli attori di Shining (1980) durante le riprese, per inquietarli), mentre negli anni ’00, diventato ormai simbolo assoluto dell’evoluzione di questa stessa controcultura cinematografica, Lynch ha riportato la propria forza d’impatto visivo ad un livello underground, mettendo però in scena gli attori, le scenografie, gli effetti e la distribuzione del mondo hollywoodiano. Lynch propone INLAND EMPIRE come ultimo capitolo di una “trilogia del subconscio”, cominciata con Strade Perdute (1997) e proseguita con Mulholland Drive (2001) – con come ideale prologo non ufficiale proprio Eraserhead –, e ne è sicuramente una degna conclusione, che buca le regole dei film precedenti, riletture neo-noir oniriche e surreali del dramma hitchcockiano à la Vertigo (1958): erano tutti film che puntavano, come il precedente Fuoco cammina con me (prequel di Twin Peaks), su di una resa grottesca di un violento e autodistruttivo processo di accettazione dello sguardo cinematografico, in cui le ermetiche e tortuose strade della mente si incrociano in enigmi tragici in cui alla fine il cinema vince sull’uomo, lo schiaccia, lo uccide. In quest’ultimo film della trilogia, tuttavia, bisognerebbe più che altro parlare di un rituale di accettazione del mondo digitale, in cui questo “impero della mente” (sottotitolo italiano del film) è tutto una deformazione bipolare del corpo e del cervello umano, ormai intinti nell’immateriale della macchina da presa, del file DCP. Con un finale lieto e agrodolce, a differenza delle mattanze devastanti con cui si concludevano i film precedenti, INLAND EMPIRE nel suo impeto distruttivo è profetico, perché riesce ad annichilire il digitale a partire da un periodo in cui esso era appunto appena nato, e si agisce “abortendo” il digitale – il che è ironico considerando come molte interpretazioni del film, che decidiamo volontariamente di non considerare, lo vedono come un manifesto antiabortista. Eppure c’è una sorta di speranza, forse una speranza legata all’evoluzione del cinema futuro, un cinema che sempre di più pare criticare tale digitalizzazione del mezzo e dell’immagine, un cinema sempre interessante ma forse pericoloso per se stesso poiché le sue inquadrature vivono commentando la disfatta della settima arte senza cercare di farla resuscitare. È una questione complessa, che si è creata soprattutto in tempi recenti, e Lynch forse, più di 10 anni fa, l’aveva già immaginato.
Cercando di penetrare nella struttura narrativa del film, possiamo raccontare la trama in due maniere diverse, una che è quella “ufficiale” e una che è più personale, più fondata su di una interpretazione totalmente individuale. Secondo l’intreccio per come è tendenzialmente riconosciuto dalle quarte di copertina dei DVD e dai dizionari di cinema, il film ha come protagonista Nikki Grace (Laura Dern), attrice hollywoodiana, che si ritrova ad avere il ruolo da protagonista in un film romantico, remake, diretto da Kingsley Stewart (Jeremy Irons), di un film polacco “maledetto” mai concluso; Nikki, attratta sessualmente dalla propria co-star Devon (Justin Theroux) ma apparentemente fedele al marito Piotrek (Peter J. Lucas), comincia ad avere problemi a percepire le differenze tra la realtà e il film in cui sta recitando. E tutto ciò è vero, ma forse non è il film. Forse il film gira attorno ad un’altra vera protagonista, menzionata nei titoli di coda come “Lost Girl” (interpretata da Karolina Gruszka, misconosciuta attrice polacca), condannata dallo spettrale compagno Phantom (Krzysztof Majchrzak), come vendetta per un tradimento, a rimanere bloccata in una stanza senza tempo a guardare immagini attraverso uno schermo. Ma lo schermo le racconta una storia catartica che si incrocia con la sua realtà, con lo scopo di riportarla con l’uomo che ama, grazie all’aiuto di una serie di figure più o meno allegoriche, spirituali, fantascientifiche. Tuttavia, per Lynch, la trama è meglio riassumibile come “la storia di una donna in pericolo, ed è un mistero”. Questo soggetto tuttavia per il regista non è nato come una sceneggiatura tradizionale, tant’è che Lynch ha scritto il film scena per scena, girandole una alla volta facendo in modo di avere un’idea generale della trama solo alla fine, confondendo gli attori al punto che alla premiere veneziana del film Laura Dern e Justin Theroux non avevano idea di su che cosa si concentrasse– situazione non dissimile da quella legata agli attori della terza stagione di Twin Peaks. Il film è stato girato attraverso un periodo di vari anni, e l’idea che diventasse un vero e proprio lungometraggio è giunta più tardi: all’inizio l’esperimento del regista era quello semplicemente di fare varie scene relativamente poco connesse l’una all’altra ma con dei punti in comune, partendo dal dialogo tra Sue/Nikki e Mr. K, e solo col tempo ha finito per essere un vero e proprio film. La promozione, poi, è stata più surreale del film stesso: il regista si è posizionato su Hollywood Boulevard con una mucca e un poster raffigurante Laura Dern nel film con in sovrimpressione l’enorme scritta “For Your Consideration”, per invitare l’Academy a considerare la nomination all’Oscar per lei come miglior attrice protagonista, usando la mucca come messaggio per dire al mondo che sul set, parole di Lynch stesso, l’autore ha mangiato “un sacco di formaggio”. Ma, trivia a parte, sembra necessario a questo punto provare a entrare dentro il film, tuttavia per farlo è necessario forse un altro presupposto più o meno personale: nell’analizzarlo scena per scena, che è quello che più o meno sto per fare, bisogna tenere in mente il fatto che il fascino di INLAND EMPIRE è legato molto alla propria imperscrutabilità. Niente è davvero per caso nei film di Lynch, anche in quelli che, come questo, possono sembrare maggiormente enigmatici e misteriosi. Interpretare il film non significa spiegarlo, e spiegarlo lo priverebbe forse della sua grandezza. Ma il cinema dovrebbe essere fatto anche per dare allo spettatore la possibilità di completare con i propri mezzi l’immagine, in modo che sia il nostro sguardo a creare il film. Usando mano a mano ogni inquadratura, bisogna delineare un percorso nei labirintici meandri di un’incomprensione naturale, un’incomprensione necessaria per entrare nell’opera (e per innescare il desiderio della seconda, terza, quarta visione). Visto che Lynch desidera che si completi l’immagine cinematografica, bisognerebbe non cercare di spiegare cosa succede nel film bensì cercare di decifrarne i simbolismi, le diverse fasi e le motivazioni dietro di esse. Forse, dopo di ciò, arriva una comprensione narrativa. Ma non esistono certezze, solo dubbi.
Il film si apre sulla luce di un proiettore che ne svela il titolo in caps lock, tra le note di una musica drone ipnotizzante. Un vinile in bianco e nero diventa la resa visuale di Axxon N., un fittizio programma radiofonico che doveva essere al centro di una mini-serie che Lynch avrebbe dovuto dirigere nel 2002 ma che non è mai stata realizzata. La presentazione di Axxon N. è una voce in inglese che ricorda i campionamenti dei brani dei Godspeed You! Black Emperor, ma i dialoghi che seguono sono in polacco: è tutto filtrato attraverso un video, però, dando alla radio anche una dimensione in immagini. Sempre in bianco e nero, si intravede un rapporto sessuale tra un uomo e una prostituta con dei volti completamente sfocati. Lei è spaventata, piange. E comincia in sottofondo Polish Poem, canzone composta e scritta da Lynch insieme alla cantante Chrysta Bell: la prostituta piangente sul letto viene frapposta alla “Lost Girl”, che piange anch’ella seduta su un letto, guardando il film stesso e poi entrandovi dentro. O meglio, osserva Rabbits (2002), e noi lo osserviamo con lei. Rabbits è un’altra mini-serie di Lynch, girata principalmente a inquadratura fissa, una sorta di deprimente e inquietante parodia delle sit-com in cui tre conigli antropomorfi (doppiati rispettivamente da Scott Coffey e dalle due star di Mulholland Drive, Naomi Watts e Laura Harring) si dicono frasi apparentemente sconnesse e prive di significato, mentre in sottofondo c’è la laugh track a cui siamo tanto abituati dai vari Friends, Seinfeld e How I met your mother. Per la “Lost Girl”, Rabbits è un mezzo di comunicazione con l’esterno, come se i conigli cercassero direttamente di interagire con lei dandole indizi, più o meno come Lynch fa con noi: dunque teniamo in mente che noi siamo la “Lost Girl”, siamo i protagonisti di INLAND EMPIRE e dobbiamo percepire gli indizi e muoverci con essi, cercando di comprendere l’incomprensibile e di cogliere ogni riferimento e ogni suggerimento. I conigli, innanzitutto, sono conigli perché sono le ombre oltre il proiettore, il gioco infantile delle ombre cinesi, le mani che diventano figure, le figure che diventano personaggi. E queste figure cercano di interagire con la “Lost Girl” cercando un qualcosa di più profondo in un prodotto televisivo fatto e costruito per rappresentare una qualche cupa banalità, ma questo mondo comincia a convivere con una realtà paranormale (riecheggiando, forse, la Loggia Nera Twin Peaks-iana), in cui convivono i demoni polacchi di Janek e Phantom, effettivo “cattivo” del film. Phantom cerca una specie di “apertura”, dice: un buco nello schermo, una porta aperta, una comunicazione tra due diverse realtà – la realtà, chiamiamola così, «paranormale» di Phantom e quella della “Lost Girl”. Questo antagonista è una figura vicina ad una specie di “regista”, che vede l’atto dell’inquadrare come un qualcosa di simile all’atto sessuale. Per lui lo stupro è un costringere lo spettatore a vedere sempre lo stesso televisore, senza dargli la possibilità di scappare. Lynch prosegue la propria ricerca di film nel film demonizzandosi sempre di più: l’inquietante Mystery Man di Strade Perdute, l’illusionista di Mulholland Drive, Phantom e volendo pure “l’uomo nel pianeta” di Eraserhead sono tutte figure “registiche”, tutte figure negative negative e nel contempo divine, che controllano con gli occhi il mondo sottostante. Sono tutte figure che devono essere sconfitte ma che tendenzialmente riescono a non essere vittimizzate, scappando nel buio, rifugiandosi nel fuori campo, salvando i personaggi all’ultimo minuto improvvisandosi deus ex machina. INLAND EMPIRE tuttavia è estremamente esplicito in ciò, ponendo sin da quasi subito Phantom come antagonista assoluto, quindi il film si può già vedere come una specie di rivolta interiore per il regista, con al centro la lotta postmoderna tra personaggio e autore. INLAND EMPIRE è puro Lynch ma nel contempo è pura distruzione (o autodistruzione) di Lynch stesso, poiché è una deformazione del suo solito cinema. Il digitale cambia tutto, deforma le dissolvenze e pure i primi piani, dalla “Lost Girl” al disturbante campo-controcampo tra Nikki e il personaggio interpretato da Grace Zabriskie, primo vero dialogo del film e prima vera scena nella vita di Nikki, il piano di realtà più narrativamente comprensibile di tutto l’arco del racconto. Dialogo, questo, fiabesco e grottesco, con l’inquadratura da una parte fissa sulla Dern spaesata e dall’altra movimentata, alienante sulla Zabriskie che dice cose apparentemente insensate cercando di suscitare in Nikki una qualche reazione – come i conigli con la “Lost Girl”. La Zabriskie, straniera misteriosa in un mondo misterioso, sembra anche lei una figura demiurgica e registica, tanto da creare uno stacco di montaggio di 24 ore con un solo gesto delle mani. Tutto ciò è soltanto il prologo del film, e si pone prima di una sezione particolarmente lineare, per quanto strana, rispetto al resto dell’opera; questo susseguirsi di simbolismi sconnessi ma profondamente coerenti buca le aspettative del surrealismo lynchano con lo stesso visceralismo delirante dell’incipit di Persona (1966) di Bergman, usando il montaggio per esplicitare con grande emotività una follia visiva basata sulla forma dell’inquadratura e non sul suo contenuto. Lynch fa trasparire l’assurdo attraverso il formato dell’immagine, la sua qualità, la sua maniera di incrociarsi con altre immagini, e non attraverso necessariamente l’inserimento dell’assurdo all’interno dell’inquadratura (c’è anche quello – i conigli – ma passa in secondo piano), così mettendo la crisi formale del cinema come prima cosa, distruggendo le pareti del plausibile usando solo lo sguardo e la costruzione visiva invece che, come faceva Schrader in Mishima: A life in four chapters (1985) o in Auto Focus (2002), abbattendo o ricostruendo esplicitamente le pareti teatrali del set. Non viene, insomma, eliminata la credibilità urlando “tutto ciò è finto”, bensì viene rinforzata l’incredibilità mettendo in risalto la fallibilità criptica della finzione stessa, il suo fascino immaginifico. È un prologo illuminante, che nel suo disordine insegue lo spettatore con una sequenza di immagini diversissime che solo il nostro occhio può (provare a) riconnettere: e questo, del puzzle e dell’intrigo, è solo l’inizio.
Comincia la storia di Nikki, la lavorazione del film On high in blue tomorrows. Champagne e caviale, insopportabili talk show gossip-centrici tenuti da Diane Ladd (madre della Dern) con velati insulti e cammeo di William H. Macy: tutto fluttua in un lusso che, come in The Canyons, ha poco a che fare con il cinema e molto a che fare con le sovrastrutture della superficialità dello star system. Il personaggio interpretato da Diane Ladd, per quanto insopportabile, mette in luce questa tendenza del mondo dello spettacolo di creare relazioni dove non ci sono per il semplice motivo che possono esserci sugli schermi cinematografici, e infatti la palpabile tensione sessuale tra Nikki e Devon nasce da lì. Il successivo incontro con il regista Kingsley e con il suo eccentrico assistente Freddie interpretato da Harry Dean Stanton mette in risalto la problematica della recitazione: Nikki e Devon richiedono vicendevolmente grandi interpretazioni, ma recitano in maniera spenta e irrealistica. La recitazione nei film di Lynch ha sempre volontariamente alternato l’intensissimo e il gigioneggiante con la completa indifferenza naïve, e in INLAND EMPIRE ciò è particolarmente vero. A parte una lacrima che spunta dagli occhi di Nikki, una singola lacrima che forse rappresenta la sua immedesimazione con il personaggio nella sceneggiatura e dunque un primo indizio di questo incrocio tra realtà, i due attori recitano male, non entrano nei personaggi, non si immedesimano nella loro sofferenza. La sofferenza è ciò da cui parte tutto, e non viene creata all’interno di questo cinema così tradizionalmente leccato. Però oltre alla sofferenza, tutto parte anche dal remake. Il remake di un film polacco mai finito perché i due attori principali, che interpretavano i ruoli poi dati a Nikki e Devon, sono morti. È come se il film fosse maledetto, ed è attorno a questa maledizione che gira principalmente INLAND EMPIRE: una maledizione lanciata da Phantom, probabilmente legata alla maledizione che ha bloccato la “Lost Girl” nel suo limbo, che porta Lynch a riconnettersi e a commentare il suo rapporto con il cinema europeo, con cui ha sempre flirtato da lontano tra Fellini, Herzog e Jacques Tati – come se il cinema americano ne fosse una perversione, una distruzione, un’incoerente resa mostruosa.
Per chi non ha imparato a memoria i nomi dei personaggi arrivando a questo punto della visione, è qui che cominciano a confondersi i piani di realtà. Non viene mai detto quando una scena appartiene al film nel film o semplicemente al film, si può solo percepire dai nomi o al massimo dal vestiario; si aprono alcuni siparietti in cui si creano surreali parallelismi tra Freddie e il marito di Sue (il personaggio interpretato da Nikki); e soprattutto viene introdotto il personaggio di Doris, moglie di Billy (il personaggio interpretato da Devon), in una breve, inquietante e chirurgica sequenza difficilmente collocabile in una progressione narrativa coerente, in cui lei viene interrogata dalla polizia sul fatto che vuole uccidere una persona con un cacciavite dopo essere stata colpita da una maledizione. Musica classica extradiegetica, dettagli che vengono spiegati più tardi, momenti quasi umoristici e un susseguirsi di sguardi umidi ravvicinatissimi che si rincorrono, con un montaggio che fa apparire le immagini del film nel film come già montate. Come se noi stessimo guardando In high on blue tomorrows, come se stessimo assistendo a piccole parentesi di una piccola favola separata da tutto il resto, per dimenticarci la follia dell’impero della mente ricordandoci di cosa può il cinema più “normale”. Insomma, banalità ed emozioni artificiali. Ma anche corpi fuori fuoco, voci sussurrate. Questa confusione viene esplicitata con la celebre scena in cui Nikki sul set parla a Devon di un tradimento ancora non avvenuto, per poi dire «sembra un dialogo dal nostro film!», scena implicitamente citata di recente da Jonathan Nolan nell’ultimo episodio della prima stagione di Westworld. La macchina da presa osserva, sempre, giudicando come Hal 9000 in 2001: Odissea nello spazio (1968), trovando nell’uomo il difetto e il problema, occhio meccanico/cinematografico angosciante che poi si trasforma nello sguardo di un uomo, il marito Piotrek. I corpi s’incrociano in primi piani rallentati, amplessi deprimenti e cupi in luce blu, e comincia forse davvero l’assenza di suddivisione, con questi corpi bloccati nel tempo in una scissione totale tra mondi, amori e passioni. Nikki adesso è ufficialmente diventata Sue, Devon è diventato Billy, e pure Piotrek è diventato qualcos’altro, il marito di Sue, Smithy. Il tempo diventa non consequenziale, e comincia l’incubo digitale in cui durante il sesso ci si può raccontare cose non avvenute che avvengono nella scena successiva su entrambi questi spazi onirici o reali, paralleli. La porta rimane aperta, rimane la comunicazione tra i mondi, dove forse non ci dovrebbe essere. E Sue entra nel mondo-set, vede se stessa e fugge da se stessa, fugge dalla suddivisione dell’Io per rifugiarsi in un solo personaggio, quello fittizio («Questo Sé è inafferrabile perché non può essere ghermito, indistruttibile perché non può essere distrutto, inattaccabile perché a nulla attaccato.», Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad). Sue entra nella casa sul set e questa immediatamente diventa la sua casa, il set teatrale che narra (a noi) la sua vita, il suo ambiente naturale secondo lo sguardo del cinema. Laura Dern/Nikki/Sue e Justin Theroux/Devon/Billy possono solo vedersi e contattarsi attraverso un vetro illuminato che pare uno schermo, mentre il mondo esterno si fa astratta dissolvenza e diventa la natura, un mondo reale invece che un mondo-set – Sue diventa più reale di Nikki. Un processo, questo, spiegabile attraverso una serie iconoclasta di campi-controcampi.
Penetrando nella propria casa, Sue trova il letto su cui se stessa (o Nikki?) e Billy (o Devon?) hanno fatto sesso, e trova due lampade di diverse dimensioni, una piccola e una eccessivamente grande, come creando un paragone tra la prima e l’inettitudine da complesso d’inferiorità di Piotrek/Smithy e tra la seconda e la grande capacità da seduttore di Devon/Billy (che appare in sovrimpressione sulla lampada), il cui membro viene poi ricoperto di elogi dalle Valley Girls, squallide prostitute tossicodipendenti che chiacchierano sibillinamente di sesso con Sue fino a farla piangere. Sono esseri sovrannaturali liminali, le cui parole sono strettamente legate al cinema, tanto da innescare la colonna sonora del film, una canzone psichedelica (Ghost of Love) cantata da Lynch stesso che ripete le loro parole – «Strange, what love does…». Pur con i loro toni sgarbati e strani, le Valley Girls “aiutano” Sue e la trasportano nella Polonia del passato. Così lei riesce a comunicare con una sfocata “Lost Girl” attraverso il bianco e nero enigmatico di Axxon N., e quest’ultima mette ufficialmente in parole e in atto una delle cose più importanti del film: la trasposizione da pellicola a digitale. La “Lost Girl” parla di imparare a vedere attraverso buchi fatti con le sigarette sulla seta: sono le “cigarette burns”, che molti di noi conosciamo grazie ai film del passato, ma per altri sono stati Carpenter o Fincher a farci imparare che sono gli ovali neri che appaiono in cima a destra dello schermo per segnalare un cambio di bobina. Si parla di imparare a vedere, ma anche di passare da un mondo all’altro, dunque di passare da un personaggio all’altro, da una realtà all’altra, da un cinema all’altro. Uno dei due personaggi interpretati da Laura Dern riesce a osservare l’altro. Imparare a vedere significa dunque imparare a percepire la finzione del cinema, imparare a percepire il montaggio, entrare attraverso queste immagini incomplete per esorcizzare la tragedia, e solo così, accettando quest’assenza di consequenzialità, si può entrare nella parte successiva del film, in cui Nikki scompare completamente. Arriva la vita di Sue, le colazioni, i tradimenti, la vita in casa con Smithy, una versione “buona” e debole del corpo di Piotrek, con tanto di inquadratura da sopra il letto come nelle VHS di Strade Perdute. Le Valley Girls sono sia guide spirituali sia figure negative e coatte, sia amiche sia coro greco, sono lì per guidare Sue, attraverso il bene e il male ma senza fregarsene né dell’uno né dell’altro, senza posizioni etiche, morali o politiche proprio come Lynch stesso.
Quella che segue è praticamente la drammatica narrazione di un contesto per capire i vari livelli di realtà attraverso i quali il film si dipana. Sue non è un’attrice ma la sua vita è come una messinscena recitata della vita della “Lost Girl”, dei suoi drammi, dei suoi tradimenti che l’hanno portata alla segregazione da parte di Phantom. Sue però per interpretare questa vita deve anche capirla, vederla. E lo fa attraverso la bruciatura di sigaretta, vedendo attraverso di essa un altro mondo, un mondo passato di intrighi e piccole cose che si sono ripercosse poi nella propria vita, o in quella di Nikki. L’orologio va all’indietro, oltre il buco ci sono solo immagini astratte che poi si concretizzano. L’occhio di Sue sembra quello di 2001, occupa tutta l’inquadratura, mentre la “Lost Girl” continua a guardare la TV, definisce l’altro Piotrek (quello del passato polacco) identificandolo con un’altra lampada, più bella. E la bruciatura di sigaretta in alto a destra dell’inquadratura si vede, come se fosse una pellicola, in una suggestiva ripresa da Rabbits. Tra le visioni di Sue attraverso il buco c’è pure un dialogo aspro e volgare tra Sue stessa e Mr. K (una figura pateticamente silenziosa ma ipoteticamente positiva, osmosi con uno dei conigli), un dialogo flash-forward del quale vari spezzoni si vedono attraverso il film, con Sue che racconta tratti della sua vita con quel tipo di volgarità che Nikki all’inizio disprezzava parlando con il personaggio di Grace Zabriskie, scindendo completamente il personaggio dall’attrice e dal personaggio nel personaggio. E poi tornano le Valley Girls, una specie di folle famiglia danzante per Sue, una banalizzazione surreale e sensuale del mondo dello spettacolo, come Rebekah Del Rio in Mulholland Drive. Con la loro evanescente danza sulle note di The Locomotion, le Valley Girls mettono in scena lo stesso strano paradosso, la stessa incongruenza (nel reale) tra audio e video, con le angoscianti luci intermittenti di Fuoco cammina con me che si riflettono sui loro corpi, trasformandoli. E poi scompaiono, mangiati dalla luce. Ma non è l’ultimo ballo: le Valley Girls, con la seguente e suadente danza sulle note di At Last, non sono solo spettacolo ma sono anche noir sovrannaturale, e in Lynch il sovrannaturale serve o come ausilio o come resa antagonistica. Loro, per quanto ambigue, sono dunque figure di ausilio, trasportano la necessità di Sue di una famigliarità a un livello spettacolare e cinematografico, comodo, dolce; e nel contempo squallido. Sono sì personaggi surreali e allegorici, ma sono anche manifesto vitale e vitalizzante di una necessità di contatto femminile, se non addirittura femminista. Ma le Valley Girls sono come le figure astratte di Twin Peaks, appartengono al reale ma sono consce solo nell’irreale: quando Sue ne incontra due a un picnic con i colleghi del circo di Smithy, non la riconoscono. Il riconoscimento è fondamentale, è il punto chiave dello sguardo cinematografico, l’osservarsi e l’osservare lo schermo. Sue nella chiazza di ketchup sulla maglietta bianca di Smithy rivede (o, meglio, riconosce) un fondamentale collegamento con le immagini passate percepite attraverso la pellicola, attraverso questo viaggio nel tempo pre-digitale: la “Lost Girl” che prega, cammina con un cacciavite in mano, urla, collassa, e per terra morta c’è Doris, con le budella che le escono dalla pancia. Immagini che tornano, e poi altri riconoscimenti demonizzanti, tra la “Lost Girl” e Phantom per la strada, con evidenti violenze in mezzo, perché Doris, sotto la maledizione di Phantom, prima di suicidarsi ha assassinato il Piotrek passato. Ma nel presente (il presente di Sue), Piotrek vive ed è Smithy, anche se continua a morire e a essere morto sullo schermo osservato dalla “Lost Girl”. La palese finzione (il ketchup sulla maglietta) richiama il riconoscimento, riporta in un modo o nell’altro all’altra realtà. Al buco di sigaretta, alle visioni oltre di esso, un mondo-cinema passato, in cui davvero il ketchup è stato usato forse come sangue finto. Tra i corpi sensuali e non comunicanti delle Valley Girls, ci si affaccia nell’ipercinetico mondo notturno di Los Angeles, con Sue che va finalmente a confrontare Billy penetrando senza permesso in casa sua, cercando un ordine ma finendo per litigare con lui e con Doris, facendo la figuraccia della persona che tenta di rovinare la vita della famiglia tradizionale e di successo. Per cercare un ordine in se stessa tenta di creare disordine nella vita altrui, non riesce a trovare un ordine mondano o mondiale, non riesce a costituire un qualcosa di definito per l’altro e neanche per se stessa perché si fa comandare da un irrazionale egoismo: ma non è un cervellotico scontro tra uomini e immagini come può esserlo Cosmos (2015) di Zulawski, è surrealismo, è immagini che si richiamano l’un l’altra senza riferimenti a una sfera reale, è più un re-Buñuel, un Chien Andalou (1929) in cui un semplice e morboso litigio casalingo può richiamare tutt’altro, specchiandosi in una maledizione gitana in un pub desolato, ricreando le atmosfere, i colori e/o i mondi di un passato mai accaduto. Nel mentre, uno Smithy spaesato cerca di ritrovare Phantom e scopre che sta lavorando a un qualcosa chiamato “inland empire” – identificando definitivamente questo demone crudele e sin troppo visibile col regista stesso. Il demone, il fantasma, il clown, la dissolvenza: e poi una smorfia tragicomica, un urlo, un trauma, una maschera disperata che diventa sconvolta. L’assenza di logica diventa horror, non solo per noi spettatori ma anche per il personaggio stesso, Sue spaventata da se stessa. Viene visitato da Sue il vicino Crimp, ovvero un alterego di Phantom, che tiene tra le proprie sporche fauci una lampadina: presa dalla lampada grande, quella del Billy superdotato. Un’immagine che ritorna, nel fluido mondo d’immagini iconiche di Lynch, riprendendo una celebre foto dal set di Velluto Blu (1986) con un inquietante Dennis Hopper. Phantom lo tiene stretto tra i propri denti, ne fagocita l’essenza: ormai Billy non c’è più, non apparirà più, Justin Theroux o Devon, niente del genere fa più parte del film. Alla fine era una figura di un altrove cinematografico che a Phantom non interessa, e quindi in teoria non interessa nemmeno a Lynch, o almeno non interessa al Lynch che vuole raccontare una favola horror (ma gli interessa sicuramente a livello di pulsione metacinematografica), perché Billy/Devon era solo un’allegoria del Piotrek polacco, ormai definitivamente morto. Smithy può essere una ripercussione di una punizione di Phantom al Piotrek morto, una specie di sua demonizzazione vicina al mito di Sisifo: costretto a rivivere, ripercuotendosi nel tempo, il ruolo che ha avuto Phantom con “Lost Girl”, ovvero il marito cornuto. Smithy non può neanche vedere la “Lost Girl”, come bloccata da un incantesimo, ma i conigli, stavolta nei corpi dei vecchi polacchi Marek, Darek e Franciszek (i loro veri corpi: i conigli sono delle veicolazioni televisive, auto-parodie costruite per sottostare allo sguardo crudele e stolto di Phantom, del regista, di Lynch, che ha bisogno delle proprie pedine manovrabili), lo aiutano, gli danno una pistola che può eliminare il crudele antagonista. E poi si mettono in posizione, e come per magia, con una dissolvenza, tornano maschere, tornano conigli.
In una pioggia colmata da fulmini accecanti, luci lampeggianti e neon che si alternano ad altri effetti ipercinetici che privano l’immagine di significato e la rendono isterica, tramutando Sue in una neo-Laura Palmer che osserva il vuoto, si sintetizza il passaggio all’ultima, grande sezione del film: Hollywood Boulevard. Black Tambourine di Beck, Sue che guarda dall’altro lato della strada e incontra se stessa (o forse la propria doppelganger, la propria attrice dalla maschera grottesca, la ripetizione del dogma della propria esistenza), mentre una Doris maledetta la insegue. Ma Sue e il suo doppelganger, entrambe prostitute, entrambe connesse alle Valley Girls, anch’esse prostitute (che non le distinguono l’una dall’altra), si confondono. È la strada del cinema, Hollywood Boulevard, colma di stelle, «stelle che fanno i sogni e sogni che fanno le stelle», gremita di luci, deformata dal digitale in un rock n’ roll che presto sfuma sulle strade innevate della Polonia. Qui la “Lost Girl”, confermando il parallelismo tra lei e Sue, cerca di farsi riconoscere da due Valley Girls e non ci riesce. Il riconoscimento non avviene, è tutto demonizzato e ridicolizzato sotto la neve, anche la disperata ricerca di Sue di un salvataggio su Hollywood Boulevard. Riesce a entrare in un club perché è amica di Carolina, che lavora lì dentro. Un seducente ballo burlesque con dietro dei poster di Lolita (1962) di Kubrick serve da introduzione alla breve presentazione di Carolina, un personaggio che con poco tempo sullo schermo risulta comunque di un’importanza probabilmente capitale: si chiama come l’attrice che interpreta la “Lost Girl”, Karolina Gruszka. Si rompono le pareti tra attrice e personaggio, e i movimenti ipnotici di Carolina aiutano Sue ad arrivare dove vuole arrivare, come se fosse anche questo nuovo personaggio un demone, una figura sovrannaturale, come Phantom o il personaggio di Grace Zabriskie, per il semplice fatto che, dal suo solo nome e dalla sua sola definizione, Carolina sconfigge le barriere tra realtà e finzione e col solo gesto compie atti narrativo-filmici. Ma in INLAND EMPIRE è tutto profondamente finto, e conscio di essere tale; bisogna solo superare l’impenetrabilità dei grossi pixel e dell’angosciante buio per percepire le piccole mancanze e le piccole aggiunte: quando Sue sale le scale, scena già vista precedentemente attraverso il buco, non c’è più la finestra verso la Polonia. Non è più la magia di un film osservato attraverso la pellicola, è una realtà (?) digitale privata del suo fascino, e c’è Hollywood Boulevard, pronta a essere risucchiata da questa pericolosa tendenza estetica. Tornando nella strada da Mr. K, confessionale per le proprie paure irrazionali, Sue diventa vittima di queste stesse paure, e il suo ventre rimane ferito dal famigerato cacciavite. Le Valley Girls urlano, alcune ridono, la musica si fa via via più angosciante, Sue grida di dolore e corre per le strade hollywoodiane, per un mondo/cinema che non la capisce e che non capisce il suo dolore, troppo concentrato sulla velocissima vita notturna della città delle stelle. Il cartello di Hollywood è fuori fuoco, le macchine e i semafori sono fuori fuoco, ma il suo volto è illuminato. Sue è vittima sacrificale e collassa, tornando al livello più puro e semplice della propria esistenza: il marciume, lo squallore, il sincero abbassamento della morale e dell’estetica, collassando in mezzo tra tre barboni (uno dei quali interpretato da Terry Crews nel ruolo più fuori contesto della propria carriera costellata di personaggi comici e action). Il dialogo si fa via via surreale, con Sue che muore tra i barboni che parlano di tutt’altro, raccontando storie anche sessuali completamente folli che riecheggiano le solite frasi e immagini comparse a più riprese attraverso tutto il film, immaginando anche nuovi personaggi, nuovi spazi, nuove particolarità grottesche di un mondo meno cinematografico, più vero. Anch’esso è folle, un mondo che continua ad essere “wild at heart and weird on top” come in Cuore selvaggio (1990). Ma questo mondo, anche se in ritardo, riesce a provare pietà per Sue, a mostrarle una luce, artificiale (un accendino) ma più reale e sincera della luce del proiettore, per aiutarla a morire, tra sangue vomitato e occhi chiusi. Attraverso la morte, Sue riesce a rinascere, e rinasce come Nikki, rinasce fuori dal film a riprese del film finite, con il regista Kingsley che la aspetta nel fuori campo per applaudirla, ed è ammutolita, non riesce a dire una parola. Era tutto un film, (ovvero: INLAND EMPIRE = On high in blue tomorrows) o ora ha cominciato a essere un film? È un paradosso che viene privato di razionalizzazione nel momento in cui ci si rende conto che, difatti, INLAND EMPIRE è un film. Appaiono le macchine da presa, e appare Kingsley, che a questo punto è un altro Lynch, una sua controparte hollywoodiana ma dai buoni sentimenti, senza morbosità, semplicemente innamorato del cinema.
E non può che giungere un necessario nuovo paragone con 2001: la rinascita come il rinascimento o come il parto, e come un innescamento di un proseguimento attraverso di esso, verso un nuovo mondo, una nuova manifestazione di ciò che il cinema può dare, e lo sguardo che diventa mastodontico. I trucchi non se ne vanno, Nikki è tornata Nikki ma si muove come Sue, probabilmente pensa come Sue, è ferita come Sue, è, difatti, Sue, con le sue lotte e le sue problematiche. Perché questo cinema, per quanto sia un cinema “buono”, rimane nascosto dall’inquietudine della mitologia lynchana – la solita idea della cupezza nascosta dietro la bellezza, come gli insetti di Velluto Blu, come la tossicodipendenza di Laura Palmer. Il set, che porta al riconoscimento da uno schermo all’altro (con i personaggi che guardano per specchiarsi l’un l’altro in un’immagine separata), diventa un cinema, diventa luogo non di creazione ma di manifestazione, e Sue rivede se stessa nello schermo. Non è un’esperienza catartica, è un’esperienza metacinematografica, spiazzante, silenziosa. Rivedersi attraverso lo schermo e poi vedere lo schermo proiettare il proprio sguardo significa seguire ciò che lo schermo ha da dire, questo schermo cinematografico così grande, affascinante, che ha ormai riempito le nostre strane vite. E sopra il cinema Sue/Nikki trova la vera Loggia Nera di INLAND EMPIRE, simile in tutto e per tutto allo spazio astratto di Twin Peaks sin dall’ipnotico pavimento striato: qui si incontrano le varie dimensioni, tutto si incrocia, Phantom e i conigli, Axxon N. e le lampade, l’appartamento di Sue e la pistola di Smithy. Qui si mette in scena il conflitto finale, in questa scenografia da incubo che sembra un appartamento claustrofobico come quello di Repulsione (1965) di Polanski; la pistola è luce, la morte è lo schermo argenteo del cinema, un orgasmo illuminato, una faccia distorta in sovrimpressione (con Sue/Nikki che ritrova la deformazione di se stessa nel suo acerrimo nemico), torna l’orrore, parte un altro sparo, la macchina da presa arriva così vicina al volto che si intravede su di esso l’ombra del microfono, e un volto femminile morente cupissimo e indecifrabile appare come maschera/bruciatura di sigaretta a sostituire l’espressione moribonda di Phantom. Vive il cinema, vive la luce, muore il regista, scompaiono i conigli. Sue/Nikki entra nella loro stanza e la trova vuota, non c’è più necessità di un aiuto e lei è ormai destinata per sempre a essere icona di un sacrificio: una luce blu accecante porta al salvataggio della “Lost Girl”, le Valley Girls felici la raggiungono attraverso lo schermo (e lei prima le vede, poi le sente), schermo che si confonde col nostro. Siamo sempre stati la “Lost Girl”, e siamo pronti a essere liberati. Siamo pronti a essere allontanati dal cinema grazie all’ombra del suo personaggio che si riflette sullo schermo stesso, e un bacio saffico salvifico può aprire nuove porte prima che Sue/Nikki scompaia definitivamente, destinata a diventare simbolo del film, non più significante ma significato, come Laura Palmer quando è uccisa liricamente alla fine di Fuoco cammina con me. La porta è aperta, la stanza è ricoperta di luce, la “Lost Girl” può ricongiungersi con la sua famiglia, con Smithy. È un lieto fine. Possiamo uscire dalla stanza, mentre i personaggi non possono, è la loro natura, sono rinchiusi tra le pareti accecanti di un qualcosa di estremamente evanescente. Il proiettore, la luce, il digitale, la sovrimpressione. Noi possiamo solo ballare, vivere, Sue/Nikki lo vede e le dispiace, ma ormai lei è INLAND EMPIRE, lei non può separarsi da questo dramma. Può solo continuare a vivere attraverso il film e attraverso le sue molteplici interpretazioni, attraverso le mille visioni. Noi possiamo continuare a vedere questo film e altri film, ma possiamo liberarci, possiamo distaccarci. O andare anche noi verso la luce. Luce che per lei diventa se stessa, ormai diventata bella e pulita e non più squallida. Nikki può cominciare a percepire Sue, può cominciare a vedere se stessa e ad amare il suo personaggio. Il film può cominciare ad avere un effetto significativo. E anche Lynch può allontanarsi dal cinema, allontanarsi volendo anche dalla cinefilia e dalla passione, e avvicinarsi ad un media altro: il digitale, la televisione, la musica.
La citazione inserita in cima a tutto ciò che avete letto non è casuale, perché Lynch, agli inizi della promozione di INLAND EMPIRE, la diceva come introduzione di varie proiezioni. Le Upaniṣad sono insegnamenti spirituali ed esoterici legati alla filosofia religiosa orientale, alla quale Lynch è sempre stato profondamente legato sin dall’inizio della sua longeva storia di pratica di meditazione trascendentale, passione che è componente importante dell’autore come uomo prima che come artista, tanto dal portarlo a progettare un documentario sul mistico indiano Maharishi Mahesh Yogi e a fondare la David Lynch Foundation per la diffusione scolastica della pratica. Possiamo dunque tenere conto di questa frase con un’interpretazione occidentalizzata dei propri termini, legando quindi ogni immagine a un concetto: per esempio immaginando che “Siamo come il ragno” possa significare che il mondo è in effetti digitalizzato e noi apparteniamo a esso come i personaggi del film, attraverso varie ramificazioni come le zampe del ragno (forse per la precisione otto, otto piani di realtà attraverso il film? Il piano di realtà dei conigli, la realtà del passato polacco, la realtà senza tempo della “Lost Girl”, la realtà di Nikki, la realtà di Sue, la realtà del film che viene ripreso, la realtà onirica e infine la realtà che viviamo noi?), che la ragnatela che tessiamo sia il film e che vivere “nel sogno” equivalga al ritrovarsi all’interno del film, senza più possibilità di distinguere la verità. Ma se invece cercassimo di dare un’interpretazione più ampia alla frase, dando un contesto e un senso più universale al tutto, ovvero cercando un approccio più orientale, dovremmo considerare il ruolo della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, che oltre a trovare una differenza tra gli Dei la trova pure tra Dei, uomo e natura. Se facciamo coincidere gli Dei con i fautori del cinema in quanto mezzo di narrazione in immagini (ovvero: nella realtà Lynch, all’interno del film Kingsley, all’interno del film nel film Phantom), gli uomini come i personaggi o gli spettatori e la natura come il digitale, si può trovare una specie di messaggio positivo e ottimista all’interno di INLAND EMPIRE, in cui per tutti c’è una sorta di speranza di separazione dal mezzo, dal film, dallo schermo. Noi tutti possiamo allontanarci dal cinema ma anche essere purificati da esso, nel momento in cui (paradossalmente) il cinema riesce a insegnarci, attraverso la sua ragnatela di deliri, che non abbiamo necessariamente bisogno del cinema. INLAND EMPIRE potrebbe anche essere il più angosciante dei film di Lynch, essendo più folle di Eraserhead, più inquietante di Fuoco cammina con me, più contorto di Strade Perdute e più metafilmico di Mulholland Drive, ma allo stesso tempo è il più romantico, il più spirituale e mistico nel senso esplicito di compimento dei propri scopi e dei propri percorsi, il raggiungimento dell’ascesi, il superamento dei blocchi del reale per giungere in un irreale, iconico spazio fuori dal mondo nel quale si possa attuare la vera libertà, la vera indipendenza. Che non viene messa in scena fino ai titoli di coda, grottesca rivisitazione di Sinnerman di Nina Simone in un salotto che pare essere l’ennesimo coacervo autoreferenziale; ma per Lynch l’autoreferenziale non è un qualcosa di masturbatorio, è anzi una maniera per riscriversi e per far piombare la propria estetica nel mondo, per conquistarlo. Un balletto a piedi scalzi nel Limbo, con Sue, le Valley Girls, personaggi mai visti prima e personaggi di un “Altrove” lynchano, come la Rita di Mulholland Drive o plasticosi taglialegna che ricordano Twin Peaks, tutti congiunti in uno spazio insensato, filmico, effimero.
Ma la fine non è mai la fine. Ciò maggiormente in Lynch, che può resuscitare nel 2017 i demoni di una serie TV decaduta nel 1992. INLAND EMPIRE alla fine non sarà un progetto multimediale ma è un progetto “multifilmico”, circondato da altri lavori più o meno lunghi ad esso legati. Sicuramente tra questi c’è Rabbits, ma anche i corti Darkened Room (2002), Ballerina (2007) e Absurda (2007) e addirittura pure il corto documentario Room to Dream: David Lynch and the Independent Filmmaker (2005). Ma soprattutto c’è More things that happened (2007), una collezione di un’ora e un quarto di scene eliminate da INLAND EMPIRE e rimesse insieme, che approfondisce svariati personaggi e dà nuovi spunti e nuove riflessioni sull’operazione, da un punto di vista magari più emotivo/drammatico che teorico. Tutto ciò è connesso in una “ragnatela” di commento sul digitale, con svariati effetti e svariate possibilità qualitative: Darkened Room è un interessante e grottesco discorso sulla tensione e sulla tristezza, che usa già il digitale per deformare i corpi e le aspettative dello spettatore; Ballerina è un quarto d’ora di riprese di una ballerina polacca, con in sottofondo la colonna sonora di INLAND EMPIRE, e le riprese sono state usate anche all’interno del lungometraggio, verso il finale; Absurda fa parte della compilation di cortometraggi Chacun son cinéma organizzata dal festival di Cannes per il proprio 60esimo anniversario, e anch’esso è un commento minimale e un po’ semplicistico all’idea di tensione e McGuffin al cinema, riutilizzando pure le riprese di Ballerina. Room to Dream: David Lynch and the Independent Filmmaker invece narra la fase di montaggio di una complessa scena di INLAND EMPIRE mai inclusa nel film, una scena che presenta due Valley Girls e un collega del circo di Smithy in un grottesco dialogo che finisce con un temporale musical; una scena assolutamente grottesca, che se fosse stata inclusa nel montaggio conclusivo avrebbe confuso molto di più le carte in tavola. Il titolo Room to dream viene da una frase di Lynch che ha a che fare con la necessità dello spettatore di completare l’immagine, ovvero «Sometimes film kills the room to dream», «A volte il film uccide lo spazio per sognare». More things that happened prende pezzi di INLAND EMPIRE e li amplia, semplicemente per rendere l’esperienza più completa da un punto di vista drammaturgico. Ci sono estratti aggiuntivi dalla vita di Smithy e Sue, una scena che potrebbe rappresentare il primo incontro tra Phantom e la “Lost Girl”, varie scene della realtà di Nikki inclusa una in cui Devon è apparentemente morto e una in cui una sua amica interpretata da Nastassja Kinski le racconta un sogno. La parte più interessante del film però è la macrosequenza finale a ritmo di Ghost of love, che mostra l’umiliazione drammatica attraverso cui passano le Valley Girls su Hollywood Boulevard, in procinto di prostituirsi per comprarsi la droga, vendendo i loro corpi nella capitale del cinema, risultando patetiche fotocopie della cancerogena realtà che hanno scelto, dimostrandosi come degenerazioni volgari di decenni e decenni di capolavori noir. Corpi banali, vittime di un sistema incontrollabile.
Giungiamo verso una conclusione, sempre se siete sopravvissuti fino a qui. Perché a questo punto, detto tutto ciò, bisogna di nuovo ritornare a riassumere, fluvialmente. Con INLAND EMPIRE, Lynch ha aperto nuove porte e nuove potenzialità per un cinema poverissimo, che trova una chiave formale e significativa nel montaggio e in un approccio nei confronti di esso a metà tra l’improvvisato e l’investigativo. È una nuova maniera per intendere il digitale, una maniera che non è stata ancora adottata da nessuno oltre a Lynch stesso forse, o almeno non con tanta seria e grottesca fluidità attraverso immagini così scarne e così poco professionali di primo impatto. Forse è questo che ha portato a Lynch ad abbandonare il format del lungometraggio, o almeno ad accantonarlo, preferendo riprendere la macchina da presa per questa terza stagione di Twin Peaks con la quale dovrà riprendersi le redini di un progetto veramente grosso che bisognerà discutere nel minimo dettaglio. Con questa progettazione ampia e complessa, INLAND EMPIRE è nel contempo umile e colossale, americano ed europeo, tragico e purificatore, è un’odissea registica come 8½ (1963), un commento rivoluzionario sul ruolo dello spettatore come Céline e Julie vanno in barca (1974), è misterioso e voyeuristico quanto Eyes Wide Shut (1999) ed è già senza tempo, nonostante la sua collocazione nella cronologia della storia del cinema sia chiave per comprenderne l’importanza. Lynch parla sempre di idee, del fatto che ogni grande prodotto artistico nasce da un’idea e che quest’idea può confluire in varie diramazioni e che non deve essere chiusa in un medium solo perché è il medium con cui l’artista parte; da questo punto di vista, con le sue astrazioni e le concretezze che esse nascondono, con la sua oscurità e la sua luce, la sua confusione narrativa e la sua chiarezza emotiva, INLAND EMPIRE non può che essere l’ennesimo, delirante, complessissimo quadro in movimento della carriera di Lynch, forse il suo capolavoro definitivo, una culla di centinaia e centinaia di idee che si sposano l’un l’altra con grande classe e con uno stile unico. E continueremo a nuotare in acque sempre più profonde, per prendere pesci più grossi, e raccontare altre storie e altre storie, e altre non-storie, finché il fiume non ci risucchia e non possiamo allontanarci, cercando di non essere vittime degli schermi, cercando semplicemente di capire gli schermi. Vivendo fuori da essi, ballando.
Nicola Settis