Fra le nuove ondate cinematografiche che stanno giungendo negli ultimi anni a illuminare i principali schermi festivalieri, quella proveniente dalla Romania è senza dubbio una delle più interessanti e originali. Un cinema fatto di macchine fisse, piccole storie paradigmatiche, drammi personali che tendono all’universale, fitti dialoghi penetranti e messa in scena curata in ogni minimo gesto, robusti legami con la realtà, contraddizioni interiori, teneri sentimenti e, non di rado, insanabili litigi, filmati con una sincera vicinanza emotiva e al contempo pudica, minimale, necessariamente asciutta. Aperta da capofila, dei quali abbiamo già più volte tessuto le lodi, del calibro di Corneliu Porumboiu, Cristi Puiu e Cristian Mungiu – gli ultimi due in concorso all’ultimo Festival di Cannes con, rispettivamente, il buonissimo Sieranevada e quell’ottimo Bacalaureat che si appresta alla distribuzione italiana nonostante l’osceno titolo Un padre, una figlia – la cinematografia rumena contemporanea non si limita ai tre autori di punta, ma ha al contrario formato e sta tuttora formando un’intera generazione di cineasti che, pur tenendosi qualche passo indietro rispetto ai tre grandi, continuano a confermare l’eccellente stato di salute dell’intera macchina cinema del Paese balcanico. Nel Concorso di Locarno edizione 2016, questo compito è toccato al trentanovenne Radu Jude, già Orso d’Argento a Berlino 2015 con il precedente Aferim!, giunto a illuminare gli schermi della kermesse elvetica con il nuovo Inimi Cicatrizate, letteralmente “Cuori cicatrizzati”, liberamente ispirato all’omonimo romanzo, a sua volta di drammatica ispirazione autobiografica, dello scrittore rumeno Max Blecher.
Urge a questo punto una piccola digressione. Per quanto semisconosciuto in Italia – solo di recente, con un colpevole ritardo di oltre settant’anni, si sono iniziate a tradurre le sue opere -, Max Blecher è infatti uno dei massimi esponenti della letteratura rumena: romanziere, poeta, traduttore, intellettuale a tutto tondo più volte paragonato a Franz Kafka e Thomas Mann. Nato nel 1909, talento precocissimo, stabilmente fra i più grandi a poco più di vent’anni e morto nel ’38 a soli ventinove, dopo dieci di quasi totale immobilità e di torture (proto)mediche in giro per i sanatori di mezza Europa a causa di una tubercolosi ossea alla colonna vertebrale – o morbo di Pott che dir si voglia -, lo scrittore ebreo rumeno ha saputo far volare libera la fantasia dalla propria costrizione, scrivendo le proprie opere principali proprio durante la lunga e dolorosa attesa della morte. Dal Corpo trasparente al Giornale del Sanatorio, passando appunto per Inimi Cicatrizate, Blecher ha raccontato, attraverso la prima persona o la creazione dell’alter ego Emanuel protagonista del libro e ora del film, la “scienza medica” approssimativa quando non dannosa e disumana del tempo, l’immobilismo e la necessità di trovare orizzonti in un’Europa imputridita durante l’ascesa del nazismo, l’amore – e il sesso – come bisogno assoluto, ancestrale, ultimo disperato legame con una normalità ormai impossibile in una vita negata dalla sfortuna.
E lo stesso racconta il film di Radu Jude, nei bordi stondati di un 4/3 in 35mm fatto di lunghi corridoi, finestre, letti e infermi che tanto ricordano il Cristo morto di Mantegna. Ogni singola inquadatura del pittorico Inimi Cicatrizate trasuda al contempo la costrizione del formato, che poi è la stessa dell’asfissiante busto di gesso nel quale viene costretto il protagonista, e la tensione all’infinito della profondità di campo, in un continuo e atterrente gioco di punti di fuga prospettici nel momento in cui la fuga è impossibile, c’è solo il letto, c’è solo l’immobilità, c’è solo il dolore con cui imparare a convivere. Emanuel-Max Blecher vive la propria condanna nel suo corpo pietrificato e quasi mummificato, eppure mai si arrende, continua a sperare, continua a ridere, continua a scrivere, continua a poetare, continua ad amare, fra fugaci incontri sessuali – compresi i tradimenti, la carne come ultima illusione di vitalità e al contempo la prova finale della sua impossibilità – e proposte di matrimonio che apriranno solo ad altri pianti d’inadeguatezza. Rispetto ai grandissimi film di Porumboiu, Puiu e Mungiu, da sempre capaci di costruire attraverso metafore e paradigmi i loro fondamentali affreschi umani e politici della Romania, dell’Europa e forse del mondo intero, ma anche rispetto al precedente Aferim! che sapeva mettere in scena negli anni Trenta dell’Ottocento tutto il sostrato di mentalità piccolo borghese su cui si è poi inaridito il secolo successivo, a Inimi cicatrizate mancano forse i legami con la contemporaneità, in un film che, rispetto alle potenzialità offerte dal suo pur spinoso argomento, rimane come intrappolato in quegli anni passati, senza voler ricollegare – al di là della diffusa ondata di razzismo ai tempi del Reich così simile a quella che la crisi economica e politica sta creando in questo periodo – il passato al presente. Sarebbe però ingeneroso considerare questa mancanza un difetto, si tratta piuttosto di una diversa spinta, di un diverso obiettivo, di diverse finalità in modalità narrative simili e con lo stesso cuore sincero.
Inimi cicatrizate è un film su una malattia dolorosa e terminale, nel quale lo strazio è realistico e ancestrale, nel quale ogni urlo di dolore è una stilettata allo spettatore, nel quale i sentimenti sono contrastanti e sinceri. È un film rischioso, dall’argomento spinoso, è un film nel quale – vengono alla mente buona parte dei pessimi ‘film impegnati’ americani, in testa Still Alice del duo Glatzer-Westmoreland, ma, a costo di scatenare polveroni, inseriremmo nel calderone anche l’eastwoodiano Million Dollar Baby – era molto alto il rischio di scivolare nella fastidiosa retorica della lacrimuccia telefonata allo spettatore. Radu Jude si dimostra invece molto bravo a dribblarlo, questo rischio, preferendo i sentimenti ai sentimentalismi, preferendo l’intensità cinematografica alla frase a effetto, preferendo la messa in scena alla pura narrazione, preferendo l’austero senso di rispetto dei lunghi e prospettici pianisequenza fissi, con al massimo qualche panoramica, ai dettagli degli occhi lucidi e delle ferite. Sospeso fra dramma storico e melò, Inimi cicatrizate segue una struttura episodica, ulteriormente rafforzata da estratti dei libri di Blecher pronti a fare capolino sullo schermo fra una macrosequenza e l’altra, accompagnando per mano lo spettatore in un viaggio di sola andata nel quale i corpi muoiono un po’ ogni giorno mentre la malattia li scava dentro, distrugge le ossa, provoca dolori insostenibili. Ma le teste no, quelle continuano a pensare, sognare, vivere. Quello del protagonista è un viaggio nel dramma e nella morte nel quale non manca però l’ironia, né tantomeno una contestualizzazione storica che va dai malati trasportati violentemente come se fossero carne da macello, passando da medici che operano con il sigaro fra i denti, a una spassosa parodia di un Adolf Hitler in preoccupante ascesa nel frattempo in Germania, fra leggi razziali e culto della persona. “Le persone hanno dovuto fare grandi cose per diventare delle statue, a te è bastato essere un po’ malato”, scherzano i medici sull’infermità appena imposta al protagonista, mentre alcuni pazienti guariscono, altri muoiono, altri hanno ricadute, altri ancora saranno costretti a un prosieguo di vita da infermi. Non resta che innamorarsi, non resta che provare disperatamente a vivere. Non resta che morire per diventare immortale, nelle proprie pagine e in quella foto sulla tomba, mentre sull’ultimo fotogramma un lampo di luce sembra quasi squarciare la pellicola, materica, morbida, crepitante. Come la vita.
Marco Romagna