L’intera filmografia di Marlen Khutsiev è uno scrigno, sempre stato per pochissimi e sparsi personaggi in grado di aprirlo e conservarlo. In Italia, attraverso FuoriOrario, abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo già da parecchi anni, ma per molto del resto del mondo questo scrigno è ancora non solo impenetrabile, ma addirittura nascosto. L’ultima sua opera edita (prima del suo ritorno alla regia, proprio in questo 2015, alla soglia dei novant’anni) è Infinitas, film totale, opera-mondo in cui tutto si può riflettere ed espandere, a partire proprio da una vita a caso e dalla sua ossessione al cospetto della morte.
È una sera qualsiasi, ed un uomo qualsiasi è a casa a contemplare la strada dalla sua finestra. Lui è vecchio, dall’anima sempre più arida, ma non biologicamente anziano; possiede una sorta di vigore robusto, ma da alcune sue osservazioni sulla vita pare che le cose stiano volgendo al termine. Il suo nome è Vladimir, decide di passeggiare nel parco, e si siede su una panchina accanto a un sentiero che emerge da un pergolato. Prima si materializza una bellissima ragazza, poi un giovane uomo, che si ripresenterà per tutto il film: il giovane Vladimir, il lui che fu. Vladimir cede ancora una volta, quando i proletari si ammassano sotto casa sua, e seduto sulla sua poltrona guarderà la giovinezza militante farsi saccheggiare l’appartamento. Però una cosa l’ha decisa, la mattina si alzerà ed inizierà a camminare, senza meta, solo a caccia di risposta sulla vita e soprattutto sulla morte. Per gli altri quasi duecento minuti si susseguono immagini semplici e strazianti, arrotolati anche sulla frattura storica di un’essenza sovietica che dopo la caduta del muro ri-cerca la sua identità, non solo sociale e politica, ma soprattutto metafisica. La continua serie di allegorie (sull’aldilà, sulla storia della grande Russia, sull’immagine stessa come sulla rappresentazione) non fanno altro che ampliare la densità di un dolore e di un’incertezza irraggiungibile quanto terribilmente umana.
Ogni incontro di Vladimir, soprattutto quelli al paese natio, in cui “inciampa” quasi per caso, assume un significato profetico, non tanto sulla stessa morte ma sul tempo che continua a scorrere e l’incapacità assoluta di farlo proprio. L’infinito del titolo sembra sgorgare da una certa enorme scia di letteratura o di pittura in cui i colori si fanno eloquenti e nascondono le parole ed i simboli. In realtà il lavoro personale di Khutsiev è molto più vivo perché ha l’odore della terra ed il sapore del gelo, perché è un abbandono totale, disinteressato ed incondizionato, ad un uomo in cui è facilissimo, per molti di coloro che si occupano di memoria, in senso lato, ritrovarsi. Il cielo nuvoloso dell’apertura, diventa limpido nel rispecchiarsi del fiume nella sequenza finale. Forse bastano davvero duecento minuti per incontrare ed incontrarsi, i diversi noi e gli altri, coloro i quali al tempo hanno preferito la durata. Un dagherrotipo da custodire, una fossa da scavare, una mano da leggere, piccoli gesti che in sé racchiudono l’essenza della domanda socratica da cui siamo germinati, come l’attrazione tragicomica per il fato/destino quale realtà imponderabile che continua a giocare con noi. Tutto questo è racchiuso in pochissimi dialoghi, mentre suoni superficiali celano flussi di coscienza mai banali, movimenti di macchina di una profondità e di una “realtà” spaventosa, in cui Vladimir è costantemente documentato come esploratore precolombiano dei motivi dell’esistenza. E così tu spettatore decidi di condividere quel viaggio come quell’uomo, che si innamora del personaggio, che diventa un amico, schiacciato inanzi tutto da se stesso.
Tutta quella strada percorsa da Vladimir in duecento minuti non può far altro che rispecchiarsi nella foce di una fiume, lì dove pare crollare tutto, anche la splendida fotografia. Il sapientissimo, lirico e leggerissimo, lavoro di macchina, il simbolismo storico e quello politico. Dopo aver assistito al dipanarsi come al ritorno all’ordine di una realtà che non può far altro che voltarsi all’indietro per tornare ad una dialettica umana, Vladimir comincia quella che pare la sua ultima camminata. Segue il suo giovane compare sull’altra sponda del fiume che gli porge la mano, ma lui è ancora convinto di potercela fare da solo, di vincere al cospetto del suo tempo. Ma siamo alla foce, il delta si allarga, e quando il Vladimir vecchio ma non anziano inizia ad incespicare, nessuna riconciliazione è possibile con il proprio passato: è solo a deriva dei sensi che può aiutarlo a rivedere la sua stessa vita, perché i rimpianti oramai si stratificano come quelle nubi d’apertura. Il loro colloquio di gesti si perde nel fragore delle acque, la macchina da presa perde entrambi, lascia il giovane ed il vecchio al destino dell’infinito, cerca lo spettro, il rispecchiarsi di vite che non possono più appartenersi, abbandonandole. Film indescrivibile quanto esperienza irripetibile, che dona a Kuthsiev come a noi stessi un livello di coscienza e di comprensione nell’atto della continua domanda come nella resistenza stessa nel confronti della stasi. Film di una spaventosa concettualità, che però solo nel cuore riesce a trovare lo spazio fisico del suo respiro, la possibilità della sua come della nostra esistenza. Vladimir, in fondo, nella sua inettitudine è un eroe, e non sappiamo nemmeno noi il perché.
Erik Negro