A quarant’anni dalla sua prima apparizione, arriva alla 74esima Mostra del cinema di Venezia la prima mondiale del restauro del capolavoro assoluto di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo. Poco importa che la sezione di classici di Venezia sia strutturata senza un progetto mirato e omogeneo quando, attraverso un restauro del genere, supervisionato anche dallo stesso Spielberg, è possibile dare vita a una proiezione così incredibile, in grado sia di risvegliare l’amore per un film scolpito nei ricordi di una vastissima fetta di pubblico, sia di aprire i cuori a chi ci si ritrova davanti per la prima volta. Sia che si tratti di una riscoperta o, come nel caso del sottoscritto, di una folgorante prima esperienza, la visione in sala non può essere che l’unico vero modo per godere appieno di un film così gigantesco portandolo alla sua apoteosi, e non è sicuramente facile riuscire a verbalizzare una visione come questa, davanti alla quale le parole sembrano diventare completamente superflue.
Si può provare a partire dal raccontare gli avvenimenti del film: il protagonista è Roy, un elettricista dell’Indiana che mentre sta andando a fare dei controlli in merito a una serie di blackout, vede passare un U.F.O. sopra il proprio camion, scottandosi su metà del volto per via della potentissima luce emanata da questo misterioso oggetto. La sua storia si intreccia con quella di Jillian, madre di Barry, un bambino di tre anni che viene portato via da queste navicelle, mentre nel frattempo un team di ricercatori e militari guidati dal dottor Lacombe, interpretato da niente di meno che François Truffaut, sta indagando su questi fenomeni.
Il film ruota inizialmente attorno a un motore invisibile, fuori campo, ovvero gli U.F.O. stessi, le cui apparizioni sconvolgono completamente le scene, con violentissime luci colorate che si scontrano con il buio della notte, suoni assordanti, vetri che si spaccano, blackout e giocattoli che iniziano a funzionare da soli. Ma ben presto queste navicelle appaiono sia agli occhi degli spettatori che ai personaggi del film: enigmatiche forme geometriche fluttuanti, talmente illuminate da sembrare addirittura fatte di luci stesse, e che imprimono nella mente di chi li ha visti un messaggio, una visione. Roy comincia ad appassionarsi non solo agli avvistamenti extraterrestri, ma anche all’immagine di una montagna, che egli si sente irrefrenabilmente spinto a ricreare come scultura. Quando Ronnie, la moglie del protagonista, lo abbandona terrorizzata dalla sua apparente follia e gli porta via i loro figli, a lui non resta che seguire la visione che lo conduce, assieme ad altri che hanno avuto contatti con gli U.F.O., alla Devil’s Tower in Wyoming, dove Lacombe, l’esercito, e una delegazione delle Nazioni Unite sta allestendo un evento epocale, ovvero il primo contatto dell’umanità con una civiltà extraterrestre.
L’uomo si ritrova ancora una volta davanti a un proprio limite, ma l’ignoto si impone sullo schermo non come orrore, bensì come pura meraviglia, centro del cinema di Spielberg, re conclamato di uno spettacolo totale e immenso, che supera costantemente i propri confini filmici e ideali. Incontri ravvicinati del terzo tipo è un trattato sulle sue due componenti sensoriali fondamentali del cinema, sulla potenza delle sensazioni che esse ci trasmettono, e su come su come siamo in grado di conoscere il mondo tramite esse: è un film di bagliori dai colori alieni, di armonie celesti di forme e e suoni, di immagini che tormentano le menti, di sequenze di note che diventano alfabeti. La musica è un linguaggio capace di superare distanze interplanetarie, mentre la meraviglia dello spettacolo cinematografico unisce tutti gli spettatori in una comune esperienza ultraterrena, in un meccanismo che riflette la sequenza dell’incontro dell’umanità con la civiltà extraterrestre. L’idea di contatto è proprio alla base nel film stesso: la coppia suggellata dal film non è quello di Roy e sua moglie, bensì quella fra lui e Jillian, che ha condiviso con lui questa esperienza sconvolgente, e dunque per questo è veramente in grado di capirlo e di essergli vicina. Il film culmina dinnanzi a questa gigantesca nave, una cittadella aliena, un reticolo di forme astratte e tecnologia inimmaginabile, una sorta di versione di Spielberg del monolito di 2001: odissea nello spazio, solo che qui Roy, un semplice uomo, nel magnifico ed incredibile finale, viene scelto dagli extraterrestri per salire a bordo con loro. E quindi la pellicola è la storia di una chiamata quasi divina, elemento fondamentale della narrativa del cinema americano, l’inizio di ogni viaggio dell’eroe, il segnale che bisogna sospendere la propria incredulità per entrare nel regno dell’impossibile. E in questa sospensione gravitazionale, lontanissima dalla nostra realtà quotidiana, Spielberg riesce a portare per mano gli spettatori lungo un film travolgente, attraversato da stupore, brividi, tensione, conflitti e commozione, con una regia che gestisce magistralmente tanto inquadrature di vita famigliare dal montaggio interno articolatissimo quanto vaste scene di massa, e con la straordinaria potenza delle sue immagini stravolge lo sguardo per arrivare dritto al cuore di qualsiasi spettatore.
Tommaso Martelli