IN WATER (2023), di Hong Sang-soo

Era il 1997 quando, nel suo Harry a pezzi, il genio cinematografico di Woody Allen immaginava il meta-personaggio di Mel, interpretato da Robin Williams, sentirsi «sempre più fuori fuoco», alla stregua di una macchia indistinta nel bel mezzo dell’inquadratura per il resto nitida. Una figura offuscata e inafferrabile, fantasmatica e quasi invisibile, incapace di comprendere se stessa e di essere compresa dagli altri, per un’intuizione straordinariamente spassosa nella verve comica dell’autore newyorchese quanto profondamente stratificata ed emblematica nelle sue ambizioni psicanalitiche e nel suo insistito ragionare sul cinema, sulla narrazione, sulla messa in scena. Sulla difficoltà, appunto, di mettere a fuoco, di avere una visione limpida e definita della realtà e dell’arte che la vuole rappresentare, di riuscire ad accettare la natura eternamente incompiuta e provvisoria della vita, dello sguardo e dello slancio creativo. Tanto più – e qui veniamo a In Water che per tutta l’ora del suo scorrere, con l’eccezione di un solo momento in cui mangiare insieme qualche fetta di pizza, invece che un solo personaggio tiene apposta di parecchio fuori fuoco le sue intere inquadrature – se si tratta di uno slancio creativo da sempre ossessivamente uguale a se stesso come quello di Hong Sangsoo e del suo cinema di meta-registi, attrici, sentimenti, alcool, banchetti e variazioni sul tema, fra personaggi che ricoprono sempre i medesimi ruoli scostando solo di poco il punto di vista e piccole differenze, a volte minuscole, in una trama che è in sostanza sempre la stessa. Un’autorialità unica e prolificissima con cui Hong scava da sempre, a volte in bianco e nero e altre a colori, nella sua personale sensibilità, nelle sue emozioni interiori e nella mutevolezza delle dinamiche di coppia, ma anche nel senso stesso del fare un cinema girato sempre in pochi giorni e senza una sceneggiatura da cui partire, scritto mano a mano durante il suo farsi, mentre si passeggia per le location fra un pianosequenza e l’altro, fra un bicchiere, uno sguardo verso il mare, un confronto e magari pure qualche piccolo litigio, lavorando ai dialoghi tutti insieme nelle troupe ridottissime e in un’idea che viene di volta in volta condivisa. Lo stesso cinema che vorrebbe fare nel suo cortometraggio, in un ritiro creativo insieme all’attrice co-protagonista e al suo direttore della fotografia, l’ennesimo meta-regista, stavolta giovane e alle prime armi, che Hong ancora una volta mette in scena come un alter ego di indecisioni e di contraddizioni sulla sua ambizione non ancora pienamente matura (basterebbe pensare allo stop e alla ripetizione quando l’attrice dimentica una battuta in un cortometraggio che dichiara l’intento programmatico di non avere sceneggiatura né tanto meno linee di dialogo predefinite), immergendolo nella pura teoria cinematografica di quelle immagini sfocate in cui innestare tutti i suoi dubbi, tutti i suoi tentennamenti sulla direzione da far prendere al film, tutta l’inevitabile miopia con cui, ancora privo di esperienza, per ora fatica a vedere nitidamente l’insieme e a scorgere i definitivi dettagli di quella che sarà in futuro la sua autorialità. Un disturbo visivo straniante, che nella sua intuizione formale di non fare realmente vedere, ma solo intravvedere, riassume intrinsecamente tutto il senso del film, tutta la difficoltà nel distinguere i volti e le espressioni di emozione che si nascondono nelle macchie di colore, tutti i momenti di esitazione prima del momento di riuscire a dare l’azione. Tutta la necessità di formare uno sguardo, e di saperne accettare e magari sfruttare le imperfezioni.

È per questo che, nonostante nelle tematiche e nelle modalità narrative incarni di fatto “il solito film” di Hong Sangsoo, in cui questa volta non c’è nemmeno uno zoom ma soprattutto i personaggi e il cinema su cui riflettere sono giovani e non ancora del tutto artisticamente formati, non stupisce affatto che In Water abbia trovato la sua collocazione alla 73ma Berlinale proprio nella sezione Encounters, quella dedicata alle novità nella ricerca linguistica, quella in cui appunto ‘incontrare’ il nuovo, l’originale, ciò che rifiuta la prassi e cerca una propria visione – o, in questo caso, la difficoltà e lo sforzo di una visione spinta sempre più (compresi i titoli di coda totalmente sfocati) verso un inintelligibile da cui (ri)trovare il talento, l’ispirazione, le connessioni e le riconnessioni umane (di un incontro casuale con una volontaria che raccoglie i rifiuti in spiaggia, magari, o di una telefonata troppo a lungo rimandata). Come se gli occhi tentassero di guardare attraverso l’acqua, imprescindibile elemento ancestrale e amniotico del titolo e del magnifico finale; come se la perdita di definizione delle sfocature di Hong, in cui è solo la risoluzione ‘normale’ dei sottotitoli a fugare sin da subito ogni dubbio su un possibile errore di proiezione, negasse in qualche modo la visione per aprire al mondo delle (novelle) idee, a un cinema primordiale e precedente alla capacità di metterlo a fuoco, alla pura impressione non ancora maturata in reale percezione. Forse la stessa natura di impressione delle immagini che prima dell’avvento del digitale venivano gonfiate dai formati ridotti della pellicola perdendo definizione, contorni e profondità dei colori, forse l’impressione di quelle che si fanno mosaico di pixel durante i lag della rete Internet nel bel mezzo di uno streaming, o forse di quelle delle videochiamate che si bloccano, quando i volti sembrano sparire nei codici numerici che li trasportano da un apparecchio all’altro ma rimane comunque la voce a mantenere le persone in contatto. Una voce magari in bassa qualità come quella della canzone cantata nel finale da Kim Min-hee, musa di Hong stavolta presente solo fuori campo, registrata e riprodotta dall’altoparlante un po’ gracchiante di un cellulare mentre il protagonista, come già nel bianco e nero e nella definizione HD di Introduction (che già a sua volta poneva lo sguardo sulle generazioni di cineasti successive a quella di Hong), cammina fino quasi a sparire fra le onde del mare. Una voce con cui dirsi che ci si pensa, con cui immaginarsi vicini anche quando lontani, con cui sentirsipercepirsi anche senza necessariamente riuscire a vedersi nitidi. Fino a riuscire finalmente ad accettare la (temporanea?) inevitabilità del fuori fuoco, senza più la paura di copiare gli altri o di ripetere se stessi, senza più paura di non avere in sostanza nulla da dire, senza più paura di rimettere più volte in scena fino a ottenere la buona i momenti di vita vissuta in cui cercare e trovare la scintilla per la nascita di una narrazione e di un’autorialità. Senza più paura di quell’indefinitezza che, da elemento di disturbo, può ora diventare vero e proprio argomento intorno a cui ragionare, vero e proprio senso di un’esistenza e di un cinema come quello di Hong Sangsoo, in apparenza sempre uguale a se stesso, e invece costantemente da (ri)scoprire come se si aprissero gli occhi per la prima volta.

Marco Romagna