«Il cinema mente, lo sport no»
Jean-Luc Godard
Un oggetto non identificato è apparso a Berlino, ed è la vera folgorazione dei primi giorni del festival. L’empire de la perfection, in titolo internazionale In the realm of perfection, è film teorico, godardiano, un lavoro sul tennis e sul cinema ma che è molto di più. Il regista francese parte mostrandoci alcune sequenze di repertorio su un tennista che sta servendo, sono immagini in bianco/nero di uno dei tanti film didattici per aspiranti tennisti realizzati da Gil de Kermadec dell’INSEP. La voice off ci spiega il movimento del servizio nel tennis: la perfezione del gesto, la curvatura del corpo, il tempo di impatto sulla palla, il posizionamento dei piedi. Tutto deve essere meticoloso per arrivare a un colpo perfetto, c’è bisogno di precisione, metodo, esercizio. Cose che valgono per tutte le cose della vita, ma nello sport molto di più.
Partendo da questi punti insoliti per uno studio sul corpo e sul movimento, ben presto facciamo visita all’Archivio sportivo nazionale francese dove sono sepolti alcuni tesori di celluloide, tra i quali i nastri 16 mm di Kermadec sulle performance di John McEnroe al Roland Garros 1984. Una troupe cinematografica da lui guadata ha catturato ogni movimento dell’irascibile tennista americano, e seguiamo così tutto il suo torneo al rallentatore e da diverse prospettive. Vediamo la sua incredibile curvatura del corpo quando si appresta a servire, movimento unico che solo guardandolo si può capire fino in fondo. Sono un amante del tennis, ho anche giochicchiato da piccolo, e non ho mai visto nessuno servire come McEnroe, con una postura assolutamente innaturale ma con un’efficacia clamorosa.
Sono cresciuto col tennis negli anni ’80, la crudeltà di questo sport non ha eguali, è lo sport che gli psicologi dovrebbero analizzare prima di cercare altro nella loro professione: un movimento, un piccolo cambiamento può far perdere la testa al numero uno al mondo, è sufficiente vedere i tic assurdi di Nadal a ogni servizio, uguali negli ultimi 15 anni, o la totale assurdità delle partite del nostro Fognini. Credo, anzi, che sia proprio impossibile entrare nella testa di un tennista, figuriamoci in quella di McEnroe, genio e sregolatezza.
Ma chi è John Patrick McEnroe Junior? Il nome è lo stesso del padre, da qui si spiega lo Junior finale, ma Mac fin da piccolo è sempre stato molto competitivo quasi come a voler eliminare lo junior dal suo nome, ha fatto il salto dai tornei giovanili al circuito maggiore molto presto e già a diciotto anni era competitivo contro i migliori del mondo. È stato semplicemente uno dei più grandi nella storia di questo sport. McEnroe ha ottenuto il primo posto in classifica Atp finendo la sua carriera con 77 tornei vinti (che aggiunti ai 78 tornei vinti in doppio fanno il totale di tornei più alto nella storia del tennis). Tra i tanti trionfi ha vinto sette titoli del Grande Slam, 3 Masters e 5 coppe Davis. Alle cronache è noto ovviamente sia per le sue abilità tecniche che per il suo comportamento conflittuale sul campo, che spesso lo ha messo nei guai con gli arbitri e le autorità del tennis. È un uomo non convenzionale dal talento smisurato, le sue volée sono state di una bellezza senza precedenti e il suo inimitabile servizio è negli annali di questo sport, “un colpo da prestigiatore per alcuni, da scultore per qualche altro acuto osservatore” scrisse il grande Gianni Clerici.
Faraut giustamente parte dal servizio per un’analisi minuziosa del suo gesto e del suo tennis, un’analisi che va ovviamente oltre il solo gesto tecnico. La scoperta di questo straordinario archivio ci mostra il suo Roland Garros del 1984 quasi in tempo reale, i suoi colpi al rallentatore da più inquadrature ci fanno interrogare sulla macchina umana e sulla macchina cinema che lo riprende.
McEnroe ha giocato in tutta la sua carriera contro le famigerate incazzature, e la potenza del cinema con queste riprese formidabili ce le fanno comprendere nel minimo dettaglio. Il film diventa un’immersione dentro il gioco del tennis che ci viene restituito in tutta la sua follia, nel quale Faraut innesta uno studio ossessivo sul talento e sugli sbalzi d’umore del campione. Nei primi piani di McEnroe si vede benissimo la personalità solitaria di un giocatore in lotta contro tutti e contro se stesso: lo vediamo in tutta la sua aggressività contro gli avversari, ma soprattutto nei confronti di arbitri e giudici di linea, che si permettevano di avere giudizi diversi dai suoi.
Sempre Clerici ha raccontato alcuni degli scontri con gli arbitri ai quali assistette, in uno dei più noti McEnroe soprannominò l’arbitro “the pits of the word”, “feccia del mondo”, seguito da “idiota ignorante”. E nella prosecuzione trovò modo di pronunciare “you cannot be serious”, dal quale venne poi il titolo della sua biografia e il logo per le magliette a lui dedicate. Ed è straordinario il modo in cui Faraut s’interroga con il commento off – la voce è di Mathieu Amalric – mentre vediamo queste immagini, piene dell’irrazionalità tecnica e psicologica di Mac. Ma com’è possibile che con questa insensatezza sia diventato il fenomeno che tutti ricordiamo? Uno psicologo sostiene che McEnroe, al contrario di tutti gli esseri umani, voleva volontariamente avere tutti contro (arbitri, pubblico, giudici di linea, avversario) per poterne trarne giovamento. A questo proposito Faraut riprende le parole dell’influente critico cinematografico francese Serge Daney, l’ex direttore di Cahiers du Cinema, che negli anni ’80 scrisse regolarmente di tennis su Liberation e disse di McEnroe “L’ingiustizia eterna di cui lui e solo lui è la vittima, gioca bene solo se sente che tutti sono contro di lui, l’ostilità è la sua droga”. Può allora essere interessante riprendere alcune parole del tennista americano, che ci spiega qualcosa in più, percepibile dalle immagini ma ancor più chiaro dal suo pensiero:
Il film prosegue nell’analisi minuziosa del tennista americano. Lo vediamo insofferente durante le odiate sessioni fotografiche necessarie per diventare una stella del tennis, poi Faraut ci mostra frammenti di interviste del periodo con la madre del giocatore che fanno capire la sete per la vittoria di Mac già dall’infanzia. Vediamo anche immagini dell’archivio di una tv americana degli anni ’80m che affermò che “il tennis è uno sport per gli assassini, e McEnroe è un riflesso diretto dei tempi duri e violenti del Paese”. E non manca nemmeno il cinema, importante anche in un folle paragone con Mozart, secondo il quale Faraut ci ricorda che Tom Hulce si è preparato per la parte in Amadeus di Milos Forman studiando proprio il comportamento volubile di McEnroe in campo. Che sport magico che è il tennis!
McEnroe non ebbe in realtà una carriera di vertice lunghissima, anche perché si confrontò sempre con avversari straordinari: ovviamente il grandissimo Bjorn Borg a inizio carriera, poi il connazionale Jimmy Connors che è stato suo grande rivale oltre che compagno in Davis, il più giovane cecoslovacco Ivan Lendl che presto diventerà numero uno al mondo. Poi ci furono anche lo svedese Stefan Edberg (il mio idolo di gioventù), il rampante Boris Becker, e arriverà presto Pete Sampras che dominerà per molto tempo, senza dimenticare Agassi e Courier. Solamente negli ultimi anni con Federer, Nadal e Djokovic il tennis ci ha regalato così tanto talento come negli anni ’80 e inizio ’90.
Proprio a una partita con Lendl è dedicata la parte finale del film. Faraut segue la leggendaria finale di quel Roland Garros 1984, una partita memorabile che la musica trasforma quasi in opera rock. Faraut gioca con le tecniche sonore per aumentare quel dramma, creando un senso di tempo sospeso. È un partita epica, al livello della famosa finale di Wimbledon con Borg di quattro anni prima, partita narrata in un film recente che non è neanche lontanamente paragonabile a questo lavoro. Forse in questo finale il film teorico diventa fin troppo thriller e si sposta solo sul piano emozionale, ma In the realm of perfection rimane comunque un lavoro straordinario e sorprendente, una folgorazione inaspettata.
Sarà che sono ricordi di gioventù, sarà per le racchette di legno, sarà per quei completini sempre bianchi, sarà per tante di queste cose, ma il tennis di quegli anni ha un’epica difficilmente eguagliabile. Facendo ricerche per questo articolo mi sono imbattuto ancora in Gianni Clerici e in una sua ammiratrice (la giornalista Samantha Casella) che ha più o meno la mia età e ha scritto pochi anni fa queste righe splendide che valgono per Mac ma possono valere per molti altri sportivi. Le riporto nella loro interezza perché non saprei scrivere meglio e anche perché mi spezzano il cuore: «Ho un ricordo appannato degli US Open 1992 e ho ben presente che John McEnroe perse contro Jim Courier, agli ottavi di finale. Ero una ragazzina, tifavo per Ivan Lendl e John McEnroe non è che mi stesse tanto simpatico. Ma Gianni Clerici disse qualcosa tipo “ho sempre saputo che il giorno in cui John McEnroe avrebbe giocato la sua ultima partita un pezzo del mio cuore si sarebbe spento per sempre”. Qualcosa di simile. Non so perché non riesco a ricordare precisamente cosa disse Clerici. Ricordo però che lo disse con un tono di voce che mi commosse. Il suo dolore era sincero. E il silenzio che seguì, fu qualcosa di talmente profondo da indurmi ad afferrare il telecomando e ad alzare il volume. Ma non era un problema dell’audio. Gianni Clerici rimase in silenzio e fu come se sopra New York fosse calato un vuoto incolmabile».
Claudio Casazza