IN PRAISE OF NOTHING (2017), di Boris Mitic

Quante volte ci siamo chiesti quale sia lo spettro di momenti e occasioni che un’immagine può visualizzare e rappresentare? Lo spazio d’azione della domanda è praticamente infinito, e infinite sono le sue possibilità. Il nulla è un qualcosa che ci sta attorno e che allo stesso tempo è impossibile da osservare. Per tanti il vederlo è solo e unicamente facoltà dei folli, per altri è il contrario di come possiamo pensare al tutto. Sicuramente può essere un punto di partenza (e probabilmente d’arrivo) della riflessione più ampia possibile sul reale, un momento per decodificare ciò che abbiamo di fronte, uno spazio infinito in cui esercitare le nostre illusioni. In tutto ciò, dove potrebbe porsi l’uomo? Pascal lo vedeva come qualcosa che sta esattamente nel mezzo tra il nulla ed il tutto, così lontano da entrambi gli estremi da non poterli comprendere. L’ultimo documentario (?) di Boris Mitic, questo In praise of nothing presentato in Signs of Life a Locarno70, pare proprio partire da qui, dallo sguardo soggettivo (amplificato il più possibile) di interpretazione del nulla, di tutto ciò che ci appare inesorabilmente nascosto dai segreti della realtà e dell’apparenza. Cerca di rappresentare ciò che sarebbe non rappresentabile, con ironia, coraggio e profondità.

In praise of nothing sono prima di tutto decine di direttori della fotografia e registi in giro per il mondo a filmare il nulla. Il loro è un automatismo, probabilmente, un qualcosa che stimoli l’inconscio e che ne possa esercitare qualsiasi fantasia possibile nella percezione del niente. Cercano un qualcosa che possa andare oltre la stessa volontà dell’atto filmico, ma che sia mosso solamente da una sensazione, da qualcosa che possa attraversare l’immagine. È la bellezza di un gesto il più affrettato e diretto possibile; il nulla non si mostra, ma lascia trasparire i suoi simboli che non tutti hanno la sensibilità di cogliere. Il commento a questo collage/mosaico di frammenti d’immagine è un quasi ininterrotto monologo scritto dallo stesso autore, farcito di citazioni (si può tranquillamente passare da Heidegger ad Adorno, con in mezzo metafore esistenziali come aforismi da cabaret) e narrato dalla voce sorda e sibilante di Iggy Pop, quasi come fosse una torrenziale litania blues in versi. Resta l’esercizio di un’opera allucinata e particolarissima, che scorre sinuosa come un flusso, accende stimoli di pensiero al limite della speranza come squarci su un baratro spaventoso in cui il nulla stesso diventa il luogo dell’oblio. La vita spesso è solo ricordo, e l’uomo ha iniziato a creare immagini per lottare contro ciò che lo obnubila insieme alle sue speranze; il film di Mitic, invece, vuole (ri)definirne i limiti e le suggestioni.

Senza dubbio il lavoro di Mitic non è retorico né tanto meno ideologico, ma è una testimonianza in divenire (e di ricezione) di una visione parziale ma collettiva infinita, in cui la dialettica coinvolge una questione primordiale da una parte, le derive di rappresentazione della contemporaneità dall’altra. Il flusso non può essere interrotto e spesso si avvicina e si allontana da noi, tra violente divergenze e sublimi convergenze. Emerge una realtà che non può e non deve aver paura del nulla, anche se esso significa interpretare con profondità estrema qualsiasi frammento parziale di realtà che appare dinanzi ai nostri occhi. Anche se tutto ciò, molto probabilmente, porta a inquietudini nuove e irrisolte, ponendo l’accento sul suo contrario. Il tutto, l’identità esistenziale a cui apparteniamo, non può essere l’antitesi del nulla, ma solo un suo completamento. Il senso è messo in crisi, perennemente, in qualsiasi posizione noi possiamo porci di fronte a questo gioco (al massacro) della percezione. Da porre, senza dubbio, in quella serie di opere sempre più ampia che possono rappresentare l'”ultimo film del mondo”, In Praise of Nothing è un viaggio doloroso quanto necessario. Basta accettarne la domanda, consci che non ci possa essere una risposta definitiva, ma solo una ricerca continua di ciò che guardiamo. Qualcosa che si sedimenta, che riempe il cuore e stordisce, come se fosse una specie di libretto di istruzioni su come tutti noi possiamo guardare al nulla. Conoscendone i rischi e il fascino, direttamente proporzionali a quanto vogliamo scavare all’interno di noi stessi, degli altri e del tutto.

Erik Negro