«Ride delle cicatrici colui che non è mai stato ferito»
Romeo, da William Shakespeare, Romeo e Giulietta, atto II, scena II
Le civette sono sacre come donne amate che sussurrano nella notte, le streghe arrivano dalle montagne e si manifestano attraverso quello stesso fuoco che ancora porta anche le parole dei vecchi saggi indigeni, e gli animali possono essere migliori amici proprio come incarnazioni del maligno, solo la reciproca convivenza svelerà il dilemma. Ma non sono solo le leggende condivise, a fare l’identità di un popolo. Pure l’apicoltura è sempre quella della tradizione, gli utensili sono uguali da secoli, e così le mosse per governare i cavalli, gli sguardi verso le montagne, la centralità dei cactus, le danze, le nubi, la nebbia, le vallate, il brillare sublime di un temporale. Fra le credenze del folklore e la concretezza di ciò che è polveroso e tangibile, come due facce di una stessa medaglia. È l’ennesimo confine che scivola fra il noto e l’ignoto, fra l’osservazione e la messa in scena, ma soprattutto fra la (micro/macro)storia personale e la Storia degli Huicholes, della loro terra e delle loro rivendicazioni, dalle miniere all’agricoltura, dalla Rivoluzione alle resistenze quotidiane dei pochi che ancora si ostinano a rimanere in una patria arida e sempre più vuota. Come se ci fosse uno spirito comune che guida un popolo da oltre un secolo, una fiamma che passa e si rinnova fra le generazioni da Pancho Villa ed Emiliano Zapata in lotta contro il porfiriato fino all’anziano e consumato contadino Beto, che oggi come un novello Virgilio accompagna nella sua costante ricerca d’amore In praise of love (nulla a che fare con l’Éloge de l’amour godardiano) lungo un cammino cinematografico a metà fra il documentario e il sogno, fra la poesia e il vivere quotidiano, fra la memoria e l’identità, dove la realtà e la mitologia non si possono più mescolare perché già sono la stessa cosa, e persino nel recitare le parole di Shakespeare non si smette mai di essere se stessi, sinceri, veri, puri. Del resto, quello verso il Messico non è certo il primo viaggio con la macchina da presa della cineasta serba Tamara Drakulic, che nel 2014 di Ocean già si imbarcava per le Hawaii, e che nel 2016 di Wind era tornata sì nei suoi Balcani, ma invece che a casa nel vicino Montenegro ormai indipendente da dieci anni. Il suo cinema, sia documentario sia di finzione, viaggia per capire, per vivere i luoghi e la loro antropologia, per trasporne in diversi linguaggi l’intima e più peculiare natura su uno schermo. Semmai, a proposito di viaggi (o non viaggi), più curioso è come tutti e tre i suoi ultimi percorsi cinematografici l’abbiano portata fisicamente o per lo meno virtualmente sotto la Mole in sempre diverse sezioni, da Onde (quanto manca!) al Concorso principale, per ripresentarsi in quest’anno forzatamente e tristemente dematerializzato nella competizione Internazionale di TFFdoc.
Cerca il suo fascino e la sua profondità in una continua dialettica d’amore e di morte, In praise of love. Quella, teatrale, del Romeo e Giulietta insistentemente provato dai ragazzini del villaggio in giro per i luoghi del paese, ma anche e soprattutto quella scandita dalle parole dentro e fuori dal campo di Beto, sorta di (pen)ultimo depositario di una tradizione, di un’essenza, di un misticismo, di un’identità. Parole che parlano di vivi (per amore) e di morti (d’amore), capaci di alternare il racconto personale del nonno rivoluzionario che distribuì le terre ai contadini, oppure la partecipazione alle manifestazioni Huicholes per far chiudere le miniere, con la vera e propria parabola di Macario che rifiutò di dividere il suo tacchino sia con Dio sia con il diavolo, ma ne diede metà alla Morte perché equa e per questo venne reso guaritore fino al ritorno improvviso della realtà, per definizione iniqua, risvegliandosi nella sua stanza da letto. Parole che esplorano l’ignoto in quella zona d’ombra e sovrapposizione che sta fra la credenza e la Storia, fra il mito e l’esperienza personale, fra il vivere e il raccontarsi. Come le forme scelte da Tamara Drakulic, del resto, sospese fra la contemplazione lirica, i racconti guardando in macchina e le prove teatrali, la realtà autobiografica quotidiana e i miti del folklore locale, la domanda diretta e le voci fuori campo: diversi modi di guardare con lo stesso occhio, alla ricerca delle varie stratificazioni di un territorio che poi a loro volta nient’altro sono, in qualche modo, che differenti forme di narrazione. Fra il passato di minatori o di ingiusti latifondisti e il presente di povertà e di continuo spopolarsi, passando per la vittoriosa Rivoluzione, per gli espropri ai proprietari terrieri, e poi per il ritorno dei padroni, questa volta meccanizzati, e per il nuovo scacciarli degli Huicholes tutti insieme, come popolo, stanchi di vedere gli uccellini istantaneamente uccisi dalle acque inquinate dal cianuro dei loro scarichi. Consci però che prima o poi, se non si saprà continuare a difendere il proprio territorio, le miniere torneranno di nuovo a riaprire, e a togliere l’acqua alla stessa gente a cui già hanno tolto la terra per deviarla verso i loro macchinari.
Servono le nuove generazioni, il barlume di speranza nella disillusione. Servono quei ragazzi che forse nemmeno si rendono conto di quanto la tragedia romantica che continuano a mettere in scena sia in realtà così simile alle leggende che da secoli accompagnano il loro popolo, e quindi alla realtà storica e quotidiana che da sempre a quelle leggende si intreccia. Quegli stessi bambini che alla festa di paese danzano scoordinati e divertiti fra le appassionate sessioni di tango sulle canzoni d’amore popolari, mentre i personaggi che interpretano passano da uno all’altro nel procedere un episodio alla volta della tragedia shekespeariana. Ed ecco che Romeo, Giulietta, Mercuzio e Tebaldo – magari con la maglia del Barcellona in giro per le vecchie Haciendas ormai in rovina, oppure pronti a “morire” di pozioni e pugnali nella stessa chiesa in cui la banda del paese si era appena esibita a piena orchestra – cambiano volti e sesso nel continuare dei dialoghi, e al contempo mai smettono di essere le persone che li incarnano. Poco importa di chi sia quale personaggio: quello che conta è interpretare qualcun altro per capire ed essere se stessi. Quello che conta è morire in scena per vivere il mondo, tutti insieme, dando ancora una volta vita a un qualcosa di corale, di comunitario, di condiviso. Quello che conta è non lasciar scomparire quel senso di appartenenza, quelle attività e quei saperi che si perdono nella notte dei tempi. Quello che conta è non lasciar portare via dal vento la tradizione orale, ma raccogliere ancora le parole di Beto, elaborarle, non tradirle, tramandarle a propria volta, e nel frattempo continuare a viverle. O forse no, ormai non c’è più nulla da fare, rimane solo l’illusione. Rimane solo l’ultima festa, rimangono le danze, rimangono i festoni, rimangono le torce usate come fuochi d’artificio un po’ squallidi attaccati a un palo, senza che apparentemente nessuno si stia ricordando quello che vuole dire la simbologia di un traliccio in fiamme. Non si può fare altro che sperare che a tempo debito torni alla mente. Ma molto probabilmente accadrà, perché al sangue che scorre nelle vene è difficile dire di no. Per fortuna, in questo caso.
Marco Romagna