IN JACKSON HEIGHTS (2015), di Frederick Wiseman
I don’t like to read novels where the novelist tells me what to think about the situation and the characters. I prefer to discover for myself.”
Frederick Wiseman
Per guardare un film di Frederick Wiseman è fondamentale, più che per qualsiasi altro autore, soffermarsi sul suo metodo, sulla sua ostinata voglia e necessità di ricerca, sulla sua instancabile e ferrea volontà di fare vedere “veramente” le cose. Per la quarantesima volta così l’ottantacinquenne dalla personalità dura quanto umanissima scende e sceglie un’altra piccola porzione del reale da indagare, un quartiere di cui tanti (tra cui il sottoscritto) erano a malapena a conoscenza, nella sterminata grande mela. Dopo l’università e il museo ecco il riemergere delle strade e dei volti, quelli di Jackson Heights, nel Queens di New York, una delle comunità etnicamente e culturalmente più eterogenee degli Stati Uniti (e del mondo). Ci sono immigrati da ogni paese del Sud America, da Messico, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, India e Cina. Ma a Wiseman non interessa solo quello, anzi. Fondamentale è, come sempre, la fitta tessitura di relazioni, che compongono quella variopinta quanto complessissima rete sociale che pare reggere lo stesso costrutto del quartiere. Dai gay senior alla casa di riposo alto-borghese, dalle pittoresche lezioni di inglese fino alla tensione tutta latina dei mondiali di calcio, dal particolare all’universale. Jackson Heights come tutte le comunità possibili può esistere solo nell’atto della partecipazione stessa alla vita pubblica, e Fred di questo è straordinariamente consapevole.
Ma la stessa rete non può non prescindere dall’individuo, in una teorizzazione estremamente statunitense di cui la nuova ondata di immigrazione nelle city è ben consapevole. Alcuni sono cittadini, altri hanno la green card, altri ancora non hanno documenti. Ma a Wiseman anche tutto ciò pare interessare relativamente, perché davanti alla macchina da presa (connesso qualsiasi possibile mascheramento) siamo/sono tutti uguali. Sono i volti a raccontarci le loro esperienze, prima che le stesse parole giungano alle nostre orecchie. Ed allora ecco i raccordi che spezzano la tensione della rete per l’espressione dell’individuo. Noi stessi a contatto con il film (ed il quartiere, che inizialmente avvertiamo come spazio sconosciuto ed ostile), dopo le tre ore siamo profondamente immersi in una realtà diventata familiare e stimolante. Così si forma la rete ulteriore, quella fondamentale per il tentativo di comprensione (di un quartiere, di un fenomeno, di uno stato, del mondo), il rapporto tra le microsocietà che l’individuo crea e la (s)personalizzazione stessa dell’individuo. L’integrazione, l’immigrazione, la democrazia e le differenze culturali, sessuali e religiose di Jackson Heights non possono essere analizzate se non con la completa osservazione quotidiana di qualsiasi elemento la componga. E allo stesso tempo il rapporto tra questi elementi e le rispettive e personali esperienze primarie dei “protagonisti” segnano un continuo conflitto tra il mantenimento dei legami con le tradizioni dei paesi di origine e il bisogno di imparare e adattarsi ai costumi e ai valori americani.
Ma tutte queste raffigurazioni e mappature possibili di uno spazio (quartiere) in un tempo (l’oggi) nascondono le stesse fratture esistenziali che compaiono nelle anime dei soggetti come nel flusso del film. Si parla anche della morte, del suicidio, della possibilità di vivere in cattività come della speranza in un futuro di autoaffermazione e non di sola sussistenza. Esperienza che lo stesso Wiseman aveva già compiuto in altri due capolavori come Aspen (1991) e Belfast, Maine (1999) ma che qui con la frattura del secolo (e della storia tutta) ritrova ancora un maggior respiro e una definizione particolarmente polimorfica della contemporaneità. Lo sguardo è così impersonale che pare riflettersi in un’altra personalità, un’autocoscienza definitiva di un autore che come nessun altro ha (ri)definito il nostro stare qui nel fluire delle cose. Ha girato una mole impressionante di ore, scremandone continuamente al montaggio decine e decine, fino ad arrivare al minimo livello di provvissorietà ed alla massima definizione del contesto. Ancora una volta, Wiseman spezza la drammatica definizione tra il campo del cinema e il fuoricampo della vita, donando un possibile ordine dell’occhio e dei sensi in un contesto dominato dal caos. I punti cardinali di questo viaggio, gli stessi che gli immigrati dovranno imparare per consacrare il loro posto negli Stati Uniti, e non possono essere altro che la libertà e l’umanità, che Wiseman persegue da quando uscì da un’aula per iniziare a guardare il mondo, anche con i nostri occhi.
Si potrebbero ancora aggiungere decine di parole, a sovrapporsi alla polifonia di voci, di lingue, di gesti, di respiri di questo film, ma tutto pare già costantemente passato nella presa diretta a cui la vita stessa costringe questo cinema. Ancora una volta si è disarmati da quanto il cinema possa essere ancora così illuminante e rivelatore, ma ancora una volta ci troviamo davanti ad occhi ben radicati nel novecento, quelli che ancora nella retina contengono un rispetto profondissimo per l’uomo e per l’immagine stessa. Jackson Heights probabilmente fra pochi anni non ci sarà più (le mani su questo angolo straordinario di New York si fanno sempre più strette) e la stessa ricerca di Wiseman quando si esaurirà non potrà mai aver nessun tipo di prosecuzione, ma non ci si può lasciare così. L’ultima sequenza, prima che in un freddo inverno qualsiasi cada un altra notte qualsiasi, è dedicata ad un’anziana che canta stonata Cielito Lindo ed una chitarra sullo sfondo. E’ doveroso pensarla così, a questo continuo universo fatto cinema, alla testimonianza fisica (pensiamo solo alle migliaia e migliaia ore di girato in questi quaranta documentari da Wiseman, escluso dal montaggio finale ma ancora conservato) ed unica che Fred ha lasciato e lascerà ancora all’umanità come a tutti noi. Sarà il nostro coraggio forse a poterci salvare, quello di iniziare a guardare il mondo con i nostri occhi, iniziando a guardarlo con i suoi. Così sia.
Erik Negro