Voleva fare un documentario sulla danza e sulla disciplina del corpo, filmando la sua ragazza Mathilde Froustey prima nel corpo di ballo dell’Opera e poi, finalmente, prima ballerina In California. Ma il film è ben presto diventato altro, rivelandosi in prima istanza a chi lo stava girando uno spaccato di due vite e di una relazione, un decalogo dei chiodi fissi più radicati, una riflessione su se stesso e sul proprio lavoro pronta a rimettere più volte in discussione tutta l’umanità e l’intera esistenza di un regista. Perché prima di tutto, nell’esordio al lungometraggio del parigino classe ’84 Charles Redon, presentato al Bergamo Film Meeting nella sezione Visti da Vicino, ci sono le varie facce dell’ossessione. Quella di Mathilde nei confronti della danza, il suo duro percorso di allenamenti per diventare un’etoile, i disturbi alimentari a metà fra anoressia e bulimia dei quali soffre sin dall’adolescenza, ma anche e soprattutto l’ossessione del regista prima nei confronti della propria amata e poi, progressivamente, del proprio film, creatura da portare a termine a costo lasciare incartapecorire l’amore, nascondere videocamere e controllare spazzatura e cellulare come il più sordido fra i voyeur o il più freddo dei detective. Fino a rispondere persino al tradimento non con rabbia e frustrazione, ma semplicemente premendo il tasto rosso di registrazione, sperando solo di raccogliere ulteriore materiale.
E infatti In California comincia non a caso con un saluto, un abbraccio, un (temporaneo quanto fondamentale) abbandono, per poi passare all’interessante analessi della storia fra Charles e Mathilde, apparentemente impossibile mix di amore, disgusto e dipendenza che si concluderà, una volta ritrovatisi e superate le crisi e le ossessioni, con il loro matrimonio. Dopo il quale, giura il regista incalzato dal pubblico presente in sala a Bergamo, le videocamere sono state spente, e la loro vita è diventata quella di una giovane e felice coppia di sposini. Quello di Redon è stato un lavoro lungo più di cinque anni, dai primi timidi incontri a Parigi fino al trasferimento a San Francisco, dall’amore più tenero al più ossessivo annichilimento, dalle interviste ai brandelli di vita, fino ai lunghi giri in moto per schiarirsi le idee. La coppia mette a nudo -anche letteralmente, ed è fra gli spunti più interessanti del film come la nudità, il sesso fra i due e persino le esperienze sadomasochistiche di lui riescano a essere parte fondamentale del film senza diventare mai morbose o impudiche- le proprie debolezze umane, i propri dubbi, i propri problemi, ma anche la propria risolutezza nel raggiungere gli obiettivi di lavoro e di vita.
In California è un film documentario piccolo, personale, sentito e sincero. Sospeso fra i drammi interiori di un amore profondo che passa dalla terribile fase della più algida ossessione e il contemporaneo struggimento di un regista che si rende conto di essere ormai vinto, manipolato e disumanizzato dal proprio lavoro, l’esordio di Redon porta sullo schermo un interessante flusso di coscienza, una riflessione ancestrale e originale sulla propria etica, sul potere della macchina da presa e sul ruolo del documentarista. Charles si rende conto di sfruttare Mathilde per il suo film e si sente in colpa per questo (emblematico in tal senso il breve ricovero della ballerina in seguito a un collasso dovuto ai suoi disturbi alimentari, nel quale Rendon ammette in voice over di essere felice di aver trovato nell’ospedale una nuova location dove girare); Mathilde si rende conto che il rapporto fra loro sta cambiando, come se la macchina da presa fosse un muro insormontabile al centro della loro relazione: il suo uomo è sempre più freddo e fuori di testa, il film che avrebbero dovuto fare insieme ha preso il sopravvento sul loro rapporto, si sente estromessa da Charles e gli rinfaccia di continuare a supportarlo senza nemmeno sapere cosa stia facendo. Fino a gettarsi fra le braccia di un altro, nella quasi indifferenza di un uomo combattuto fra i dolori di un amore incrinato e una sadica (quanto masochistica) gioia per la piega inaspettata presa dal proprio film, fino a ritornare a quell’abbraccio e a quel temporaneo abbandono che avevano aperto la narrazione. Per superarli e, attraverso la distanza, rivedere la felicità.
Il regista ha bisogno di liberarsi dal suo ingombrante ruolo di deus ex machina per (ri)trovare una nuova e più morbida personalità, deve mettere da parte la propria indipendenza, deve essere comandato e umiliato. Lei e la sua avventura amorosa al mare seguita a distanza su iCloud, lui e le frustate sadomaso come momento di sospensione. Il dolore libera un uomo nuovo e capace di superare i propri incubi e le proprie ossessioni, la natura animale viene relegata in una maschera da cane in pelle, mentre l’uomo ritrova la serenità, l’intimità, l’etica del documentario videodiaristico. E l’amore di lei, sgargiante nell’abito bianco mentre lui cammina verso l’altare e la nuova vita insieme. Certo, In California non è paragonabile all’umanità sconfinata che emerge dai migliori esempi di videodiari, da Ed Pincus ad Alberto Grifi, a volte indeciso sulla strada da prendere, spesso troppo cinico, a volte poco lucido in lungaggini fatte di bastoni per i selfie e autoritratti alla ricerca di se stessi supini sul divano. Ma quello di Charles Redon è un lavoro indubbiamente interessante, un’acuta riflessione metacinematografica, un corollario paradigmatico di ossessioni e di dubbi, umano proprio a causa della propria complessità e fallibilità. Un film senza dubbio da difendere, in attesa di scoprire che cosa farà in futuro il giovane e interessante autore francese.
Marco Romagna