Avevamo imparato a conoscere l’azero Hilal Baydarov con la sua miracolosa trilogia sulla famiglia. Tre film sul limitare fra documentario e finzione, Birthday, Mother and son e When the persimmons grew, straordinariamente lirici e irresistibilmente seducenti, fatti praticamente con nulla mettendo in scena profonde e stratificate variazioni sulla stessa (non) trama di madri (la sua) in attesa e di ritorni al focolaio domestico. Tre film girati in casa con costi vicini allo zero e interpretati dallo stesso Baydarov con i veri familiari, realizzati fra il 2013 e il 2014 e rimasti in un cassetto, dopo gli iniziali rifiuti dei Festival a cui erano stati proposti, per sei lunghi anni di depressione autoriale. Tre film di sguardo e di sentimenti, di sincero affetto e di differenti declinazioni dell’inquietudine esistenziale, che innestavano con grazia e misura la poetica allegorica di Paradžanov e di Malyan nelle steppe dell’Azerbaigian lungo lo scorrere delle stagioni, fra l’appartenenza ai luoghi di Edgar Reitz e la quotidianità di Ozu, fra la solitudine di Antonioni e le suggestioni di Tarkovskij, fra l’espressività decadente di Ford e le ricerche espressive di Sokurov. Tre film in grado di suscitare aspettative molto alte per il prosieguo della carriera, forse troppo alte. È quindi un paradosso che venga proprio da un buon film, nettamente fra i migliori di un concorso non certo irresistibile, la delusione più cocente di Venezia77.
Perché, a differenza di (tanti) altri lavori presentati in questa non certo irresistibile massima competizione veneziana edizione 2020, il nuovo In between dying con cui Baydarov torna alla regia è indubbiamente un buon film, forse addirittura un bel film. Un lavoro primordiale e magmatico, in cui l’amore e la morte si inseguono nella nebbia fra perdite e liberazioni, fra sensi di colpa e lutti da elaborare, fra le figure intere che si muovono nell’infinita spazialità dei campi lunghissimi e le sospensioni oniriche intinte nel minimalismo delle splendide musiche di Kanan Rustamli. Un lavoro almeno a tratti ipnotico e abbacinante, fatto delle confessioni in impossibili dialoghi fuori campo e di ripetuti mortiferi incontri, di cavalli nella foschia e di corse in motorino, di simboli metaforici e di inseguimenti senza fine. Eppure questa volta, alzando probabilmente troppo l’asticella delle ambizioni e forse complice la mano di Carlos Reygadas fra i produttori, qualcosa nel sinora perfetto impianto cinematografico di Baydarov sembra incepparsi, troppo formale e pretenzioso per quello che il film ha effettivamente da dire, troppo immodesto e insistente nel suo non fidarsi di un pubblico più volte imboccato di superflui riassunti (le telefonate al capo degli inseguitori) e pleonastici spiegoni (in testa il monologo nel prefinale, ma non solo), troppo banale nelle sue speculazioni filosofiche a (solo) mezza altezza su vita, morte e matrimonio. Il problema non è il passaggio, dopo l’autobiografismo del rimettersi in scena, alla pura finzione. Il problema è che alla pregevolissima fattura della forma, fra gli sterminati grandangoli e il grigiore tetro dei cieli offuscati, non sempre corrisponde un altrettanto prezioso contenuto. Fino al paradosso di lasciare emergere proprio dalla sua ostentata “bellezza”, dalla cura estetica e dal linguaggio che cercano di sintetizzare Andrej Tarkovskij e Terrence Malick in lunghi pianisequenza fissi di sterminate simmetrie, un’inaspettata e del tutto inedita freddezza. Ma andiamo per ordine.
Si svolge tutto in un giorno, In between dying. Un giorno che, come ogni giorno, può contenere e cambiare la vita. Protagonista è il giovane Davud, che esce inquieto dalla casa materna alla ricerca della «vera famiglia» e dell’amore, ma ovunque vada e chiunque incontri riuscirà a portare solo morte. Prima un colpo accidentale di pistola durante una colluttazione al cimitero, e poi la fuga dai tre scagnozzi che lo inseguono fra figlie abusate e rabbiose che, dopo anni passati alla catena come un cane, uccidono a morsi il padre, anziane mogli da sempre picchiate che dopo vent’anni trovano la forza di uccidere il marito e giovanissime spose di un matrimonio combinato senza amore che si toglieranno la vita il giorno stesso delle nozze. Eppure a ogni morte corrisponde in qualche modo una liberazione, la salvezza di quelle donne che vivevano ognuna sotto il suo giogo, quasi come se lo avessero aspettato per insegnargli attraverso la morte quell’amore del quale Davud aveva letto, ma che mai aveva realmente vissuto né tanto meno capito. Ci sono bambini morti prima di nascere e madri da seppellire nella loro attesa di un figlio che non esiste, c’è l’allontanarsi e c’è il cadere, c’è l’appartenersi e c’è il piangersi, c’è l’abbracciarsi e c’è il (non) riconoscersi. Non è un caso che lo stesso Davud cada (morto?) più volte, dal motorino e sui campi, nei boschi e fra le braccia di lei, e poi ancora sul pavimento di casa, di fronte a quel divano e a quella madre che dopo l’ultimo vagito d’amore – «Non sei affatto una cattiva persona» – ha smesso di rispondere. Come se la morte fosse in qualche modo l’unica strada per scoprire il reale significato dell’amore e della libertà, mentre è proprio l’amore (familiare) l’unico antidoto per riuscire a superare e metabolizzare la morte. Una relazione strettissima e imprescindibile, il rinnovarsi dell’eterna danza fra ἔρως e θάνατος, il loro vorticare insieme fino a confondersi in una cosa sola.
Baydarov lo mette in scena “fra una morte e l’altra” con azioni dilatate e criptiche sospensioni liriche che anticipano il successivo capitolo dettando le regole sui cambi di identità della ragazza, ora sola e ora sposa, ora vedova in attesa del marito morto in guerra e ora cieca in burqa in grado di riconoscere molto meglio di chi vede, e che proprio per il fatto di non essere riconosciuta sarà in qualche modo ancora viva eppure già irrimediabilmente morta, esattamente all’opposto di una madre che con la sua morte insegnerà definitivamente i misteri della vita. I personaggi alla ricerca d’amore attraversano una giornata enigmatica e impervia, a tratti impenetrabile, che dalla contemplazione estatica giunge alla memoria di ciò che non si è mai vissuto, e che dal sogno giungerà fino alla metafisica, alla pazienza come grande inestimabile dono, alle prove da superare per rimanere giusti di fronte a Dio, alla decisione di tornare per l’ultima volta a casa dall’amore puro di una madre, molto più consapevoli di come il sentimento sia l’unico possibile senso della vita. Eppure, nel suo affastellare seducenti intuizioni, In between dying sembra in qualche modo un passo più lungo della gamba, un Icaro cinematografico che si avvicina troppo al sole, o per lo meno un allontanarsi dalla via maestra di quel cinema magico e fuori dal tempo realizzato in passato e per molti versi impossibile nella profonda sostanza che emergeva dal suo commovente e magnetico ammaliare. Come già detto un buon film, certo, intimamente autoriale nella messa in scena e senza dubbio ipnotico nei suoi misteri e nella magnificenza lirica delle sue forme, eppure in qualche modo un bellissimo portagioie mezzo vuoto, una superba confezione che non riesce a nascondere la sostanziale inconsistenza che almeno a tratti, per la prima volta, sembra apparire in trasparenza quando ci si spinge al di sotto della superficie estetica delle immagini. Una folgorazione mancata, che diventa inevitabilmente perplessità e insoddisfazione. Nonostante i tanti momenti di cinema purissimo, nonostante gli incanti e le suggestioni, nonostante le ottime premesse narrative e il magnifico finale che, giustappunto, torna a casa dalla vera madre di Baydarov e quindi, almeno per un istante, ai cachi e al vivo calore umano di quella precedente trilogia umile e sublime, poetica e sincera, densa ed emotiva, che partiva per volare molto più bassa di In between dying e forse proprio per questo giungeva vertiginosamente più in alto. Un ricordo che per il resto rimane inaspettatamente in lontananza, come il fantasma di un rimpianto e di un confronto implacabilmente impietoso. Purtroppo.
Marco Romagna