È un vero e proprio girone infernale, quello che il regista napoletano Edoardo De Angelis mette in scena nella sua opera quarta Il vizio della speranza, dramma quasi esclusivamente al femminile giunto alla 13ma Festa del Cinema di Roma più o meno a metà strada fra la primissima di Toronto e l’uscita nelle sale già programmata per il prossimo 22 novembre. Un calvario “nella città dolente” claustrofobico anche negli spazi più aperti, in cui si innesta la parabola brutale, crudele e asfissiante di chi anche in questo lungo inverno privo di orizzonti e di qualsivoglia sentimento riesce in qualche modo a ribellarsi e a ritrovare il cuore, la sempre grande rivoluzione dell’umanità. Ci sono i paesaggi più degradati di Castel Volturno fra muri scrostati e luci al neon, c’è un microcosmo di povertà, squallore e traffico di neonati nel quale non c’è più spazio per l’umano e la speranza è diventata, appunto, un vizio, e c’è persino il fiume da attraversare con tanto di moderna Caronte, Maria, che trasborda le anime in pena da una sponda all’altra del Volturno, o meglio da una parte all’altra dell’amarezza e del dolore, dalla gravidanza alla busta di denaro con cui si vende la carne della propria carne. Fino a quando non sarà il miracolo a materializzarsi nelle forme di una gravidanza che tutti pensavano impossibile, e che non potrà evitare di riaccendere il sogno e il sentimento strappando proprio Maria, la traghettatrice, la spietata, l’anello della catena, il «contenitore vuoto», alla stessa possibilità di andare avanti con una realtà in cui l’altruismo è eversione. Si scopre pronta a morire per dare l’amore e la vita, e finalmente riapre così alla carità, alla cooperazione, all’integrazione, alla (ri)scoperta e al superamento degli orrori passati. Alla nobiltà d’animo, al riscatto morale, alla salvezza, alla possibilità, finalmente, di “uscire a riveder le stelle”.
Nei paesaggi più desola(n)ti e caratterizzati di Castel Volturno, De Angelis innesta e filma un (non) luogo che è in realtà astrazione di ogni luogo, nel quale non c’è più pietà, non c’è più amore, non c’è più alcuna luce a squarciare le ombre di un inverno gelido e apparentemente infinito. Ed è proprio qui che, pur con tutte le sue imperfezioni, con le sue forzature in una metafora mariana un po’ troppo programmatica e con i suoi eccessi di retorica che finiscono per depotenziare la seconda parte, con le sue eccessive aperture alle (splendide, ma troppo presenti) canzoni di Enzo Avitabile che negano quasi ogni silenzio e con le sue cadute nel didascalico fra sottolineature in ralenti e qualche sdolcinato patetismo, quello che forse non riesce a essere fino in fondo “un bel film” trova un fascino profondissimo e ancestrale, per molti versi mistico, che pur non cancellandone i limiti rende impossibile non difenderlo. Viene anzi naturale sostenerlo a spada tratta. Perché profondamente umano, perché profondamente politico, perché profondamente sincero nel suo delineare la disperazione quanto puro nella strenua lotta per uscirne. Come una luce in fondo al tunnel, come un salvataggio fra le reti, come il primo vagito di chi vede il mondo, o come il sorriso amorevole di una mamma.
Il centro assoluto de Il vizio della speranza è Maria, incarnata con intensità e partecipazione dalla moglie del regista Pina Turco. Con la sua barca a motore e con il suo fedele pitbull al seguito, con la vecchia madre ormai invalida da accudire e con l’ingioiellato vertice del matriarcato da servire e riverire, con le ferite più atroci ormai lontane nel tempo ma sempre presenti nelle cicatrici e nei traumi quotidiani, ma anche con la speranza che cresce insieme al ventre a riscoprire l’impossibile e a chiamarlo amore. Si muove (non) vivendo giorno dopo giorno nella pletora di ragazze e donne gravide – bianche e di colore, regolari e clandestine (secondo le ultime stime sarebbero almeno venticinquemila gli immigrati senza permesso di soggiorno a Castel Volturno), per la maggior parte prostitute, nessuna al di fuori del cerchio dell’abbandono sociale – traghettandole fra la povertà e la disperazione, aiutandole a portare a termine la gravidanza e ogni tanto ritrovando chi cambia idea e fugge, ma si renderà ben presto conto che non si esce così facilmente da quel tunnel. Si accorgerà solo dopo mesi di essere rimasta incinta, proprio lei che si pensava sterile, proprio lei in sostanza ricostruita dalla chirurgia dopo avere iniziato già da bambina con le peripezie e le più imperdonabili umiliazioni subite, proprio lei che più di chiunque altra ora rischia di morire di parto, conscia che la maternità è uno sforzo che il suo corpo provato probabilmente non potrà sopportare. Ma non pensa nemmeno per un attimo a rinunciarci, a crederci, a sperare. A vivere in un mondo che, banalmente, non consente di farlo.
Basterebbero gli attracchi notturni della barca fra i colori delle lucine natalizie e il rosso delle insegne, basterebbero i fiocchi di neve che scorrono di fronte ai volti e poi si posano a certificare che l’inverno (e quindi il purgatorio di Maria) è ben lontano dal vedere la fine, basterebbe il ritorno al«la lavatrice» con il vecchio giostraio Carlo Pengue, «brav’uomo» caduto in disgrazia proprio per aver aiutato la Maria bambina dopo lo stupro e il tentativo di annegamento subiti senza che nessuno credesse alla sua estraneità e al suo altruismo, oppure basterebbero le tonalità livide che emergono dall’oscurità nella costruzione del perfetto luogo/immaginario illuminato dal miracolo: lo sguardo di De Angelis, forse ancor più che nel precedente Indivisibili, sfrutta al meglio il comparto tecnico per innestare nella potenza visiva delle immagini quella stessa forza che Maria dimostra nella sua lotta contro tutto e contro tutti – contro la scienza, contro il suo passato, contro l’eterno presente della sua quotidianità come pedina di una società angosciosa di mercificazione ed egoismi, di schiavitù e di oppressioni, di amarezza e di accettazione. Il vizio della speranza è, a suo modo, un western moderno di povertà e degrado, o se si preferisce un film neorealista di scorci mozzafiato e di atmosfere al contempo tese e spirituali, o ancora un melodramma che diventa paradigma della realtà e di una Fede laica nella vita, oppure un film mistico che parte dall’assoluta desolazione per ritrovare fra mille peripezie (e troppi simbolismi, ma non è così difficile perdonarli) una propria purezza e redenzione nell’amore. Comunque lo si voglia leggere, e ben al di là delle sue piccole e grandi imperfezioni, quello di De Angelis è un film ambizioso, profondamente coraggioso e indubbiamente interessante, pienamente autoriale e forte di una ben precisa e raffinata idea di messa in scena, e non certo in ultimo intimamente convinto fino quasi alla commozione che il cinema possa cambiare il mondo. Il che, con il suo nobile afflato antirazzista, con la sua disperata ricerca di umanità, con la sua centralità assoluta delle donne e con il suo interesse esclusivo per gli ultimi, non può che essere, specialmente in questo periodo, un’idea a cui aggrapparsi con ogni forza.
Edoardo De Angelis, fra elaborati pianisequenza e ipnotiche figure umane che quasi volano sulla superficie dell’acqua, mette in scena la sua Maria in una palette cromatica fosca, satura e splendidamente amalgamata nei forti contrasti fra le tonalità fredde dei paesaggi e quelle calde delle illuminazioni metalliche, guardando ancora una volta al cinema di Matteo Garrone (impossibile, se non altro per le location, non pensare all’ultimo Dogman) ma al contempo discostandosene come se fosse un percorso su una strada parallela, non meno cupa ma sulla quale prima o poi si farà largo il cuore. Riaccendendo qualche barlume di bagliore umano a squarciare le ombre della desolazione, e risvegliando i sogni e i desideri sopiti, quelli di normalità, quelli di partecipazione, quelli di condivisione, quelli dell’amore disinteressato, puro, quasi angelico, di chi ancora è capace a provare sentimenti. Certo, a tratti le metafore prendono un po’ troppo il sopravvento, fra i nomi biblici (non solo Maria, ma anche Fatima e la piccola Virgin) e la preghiera – intensa perché sinceramente disperata, ma non certo impeccabile in fase di scrittura – che Carlo Pengue si ritrova a recitare durante il pericolosissimo parto, a tratti ci si ritrova a non credere fino in fondo a ciò che accade (perché Maria, dopo il tentativo di fuga pre-parto e l’elettroshock che la ferma, verrebbe in sostanza lasciata libera di fuggire con Pengue e Virgin dalle sue persecutrici?), e a tratti il rigore linguistico di De Angelis sembra quasi venire meno, scivolando in qualche accentuazione retorica delle scene cardine presa un po’ a prestito dalle sviolinate dei melodrammi di cassetta americani. Ma nulla di tutto questo riesce a scalfire l’attrattiva, la potenza, l’acume e la condivisibilità dei contenuti di un film sorprendente ed emozionante, né il fascino ipnotico delle sequenze più ispirate, né tanto meno la loro indubbia intensità emotiva – sulla quale basterebbe la magnifica e straziante sequenza della morte del pitbull avvelenato da una polpetta per versare interi fiumi di inchiostro.
Sta nel femminile l’unica possibile salvezza. Sta nella capacità di generare, di portare avanti la vita, di manifestare la propria autodeterminazione. Di amare, superando tutte le peripezie e i soprusi, ancora di molto al di là dei riferimenti cristiani che Il vizio della speranza porta in dote. Sta nel ritorno al ventre materno, con quella vasca da bagno/liquido amniotico in cui madre e figlia si scambiano più volte i ruoli, sta nel rapporto che nasce fra Maria e Virgin, da feto/pezzo di carne in passato pagato e rifiutato a causa di una lieve malformazione a bambina soggetto e oggetto di affetto e cooperazione, sta nella profonda dignità di chi si mette pazientemente in fila per vendere il proprio corpo ma mai venderà il suo frutto. Ma, come anticipato in apertura, più che nello sviluppo in Purgatorio e poi, parrebbe, Paradiso, è nella costruzione dell’Inferno che Edoardo De Angelis gioca le sue carte migliori. C’è chi ha già venduto quattro figli e quasi si scusa quando scopre che il quinto rigonfiamento del ventre è in realtà un tumore, c’è un intero mondo di prostituzione e commercio di esseri umani «che andranno a stare bene», e c’è la spietata boss eroinomane per la quale in tutto il suo giro di gravide, ostetriche, traghettatrici e clienti che rimarranno intelligentemente fuori campo conta solo piazzare il prossimo nascituro. Maria emerge da tutto questo, spera in un luogo in cui la speranza è bandita, soffre e fa soffrire, crea empatia, e nel frattempo aspetta, perché solo dare una vita potrà ridare senso alla sua vita. Fino alla Natività, fino alla famiglia, fino a un sorriso di gioia e tenerezza. Dal quale ripartire, viva e finalmente felice. L’inverno è finito (?).
Marco Romagna