Tante volte ci interroghiamo sul fatto che oggi sia difficile scoprire un film, come se lo sguardo attuale non potesse destabilizzarci più di tanto, forse perché siamo già abituati a una serie infinita di immagini vuote, o forse perché, fondamentalmente, già molto è già stato detto. Così, quando ci si (ri)trova davanti a un’opera inedita (soprattutto se di un autore seminale come Ermanno Olmi), sarebbe fondamentale riflettere su tutto il cinema che ancora oggi andrebbe riscoperto, su opere e filmografie ancora nascoste, su piccoli o grandi movimenti interni che hanno segnato indissolubilmente un’arte come un’espressione. Grazie al lavoro di un altro curatore e studioso folle del nostro cinema, Tatti Sanguineti, è tornato alla luce un gioiello di Ermanno Olmi, un film particolarissimo all’interno del suo corpus come del cinema italiano dell’epoca. Siamo quasi mezzo secolo fa, nel 1968, dieci anni dopo l’esordio al lungometraggio del regista bergamasco, quando molto tempo era passato dalla sua epoca documentaristica alla Edison, essenzialmente educativa e industriale. Per questi, e per molti altri, motivi Il tentato suicidio nell’adolescenza (T.S. Giovanile) è quasi una scheggia impazzita in un percorso, un film forse addirittura volontariamente dimenticato, ma che oggi (ri)splende nella sua freschezza ridefinendo il senso stesso di un’urgenza e di una verità da raccontare. Depositato da collezionisti privati al MUSIL (Museo dell’Industria e del Lavoro, oggi Fondazione Micheletti, Brescia), questo mediometraggio era disperso in quattro scatole di metallo contenti i rulli e con scritto in superficie solamente T.S., mai visto nemmeno dai protagonisti e mai proiettato. Parrebbe facile ora risalire a cosa potessero contenere quello scatole, ma questo lavoro non veniva citato e considerato in nessun archivio, come se non fosse mai esistito. – Sarebbe doveroso così parlare anche di chi del cinema ne fa anche una filologia, di coloro che lavorano nell’oscurità famelici di salvare le immagini dall’oblio e l’oblio dalle immagini. Ma questa sarebbe una storia, anche per esperienze personali, davvero troppo lunga e questa non è la sede più congeniale in cui approfondire – .
Il documentario (molto probabilmente un lavoro su commissione della multinazionale farmaceutica Sandoz) si occupa di rendere noto l’approccio sperimentale del primo reparto di psichiatria d’urgenza in Italia, al Politecnico di Milano, curato da un pioniere e luminare come Carlo Lorenzo Cazzullo. Nella fattispecie Olmi si vuole soffermare sui casi di tentato suicidio al di sotto dei venticinque anni, non tanto sulle modalità ma sui fattori endogeni e in special modo esogeni, che portavano i ragazzi sull’orlo di una negazione del proprio esistere. L’apparato con cui il film è costruito nella prima parte è legato all’inchiesta scientifica, specialistica e rigorosa. Le fredde statistiche tecniche sono messe a sistema con interviste comprensibili ad un pubblico più vasto possibile, le storie personali con le strategie di recupero dei pazienti, lo sviluppo di una società mai così in mutamento con i retaggi di un’Italia ancora spesso troppo arretrata. Ma sarà proprio quando la narrazione, nella seconda parte, si sposta su una giovane paziente nelle mani dell’equipe, che questo progetto prende ancora un altra direzione, di cinema purissimo. Una microstoria, intervallata dall’intervista, che vive di luce propria all’interno della cornice; splendidamente montata tra primi piani e dissolvenze, in interni chiusi come in splendide marine, ad anticipare quasi radicalmente molto cinema di indagine psicologica e comportamentista dei decenni successivi. Al centro di questa parentesi, con la solitudine e la fisicità con cui viene raccontata, frammenti di un weekend naufragato, senza quasi lasciare parole. L’opera, apertasi con il suo trasporto d’urgenza in ospedale, si chiude così ellitticamente sul tentativo di recupero di questa affascinante e misteriosa protagonista, simbolo di una generazione dissipata ed estremamente bisognosa del tentativo di comprensione che quella realtà spesso negava.
Si potrebbero dire molte cose su questo film. Anzitutto il sottostrato ben presente di critica sociale, che evidenzia un paese ancora estremamente lacerato (nord e sud, ricchi e poveri, uomini e donne) come una delle possibili cause generatrici di un esaurimento giovanile. Allo stesso modo, proprio in quelle primavere, emerge un sentimento di evasione ed emancipazione che travalica i rapporti familiari per postulare un giovane nella nuova dimensione di soggetto estremamente fragile, incline ad avvallare battaglie (sentimentali, politiche, professionali) con poi il conseguente scoramento della sconfitta (non a caso, siamo proprio nell’estate del Sessantotto). E quest’opera rappresenta anche, vista oggi, un tassello fondamentale nel cinema di Olmi, ancora legato allo sguardo dei suoi cortometraggi didattici, quasi ne fosse una specie di intesi evolut(iv)a, e allo stesso modo incline a una narrazione empatica e sofisticata. Il suo rapporto con l’universo giovanile non è mai didascalico, ma quasi paterno e amorevole, alla ricerca di una speranza che possa colmare il vuoto della boom-generation italiana cercando di guardare il futuro come una progettualità utile all’intero tessuto comunitario. Un percorso che Olmi non ha mai abbandonato, diventando uno dei più profondi e umani autori italiani del secondo dopoguerra, ben oltre il maestro del cinema industriale come inizialmente fu riconosciuto. Vedere questo lavoro piccolo, perduto e ritrovato, oggi così inestimabile, è come dare nuova vita a un corpo misteriosamente sopravvissuto alla sua epoca, proprio come tanti dei suoi abitanti, riabilitati all’esistere dopo aver lambito l’abisso. Sta a noi occuparci di ciò che rischia di scomparire, materico e metafisico, vivente o memoriale. Perché (ri)trovare un film è ritornare a vedere ogni piccolo frammento di storia, e allo stesso modo è conoscere ogni piccolo qualcosa in più di noi stessi.
Erik Negro