IL SETTIMO VIAGGIO DI SINBAD (1958), di Nathan Juran
Il problema del cinema d’intrattenimento “epico” odierno non è la sua superficialità, ma l’ostentazione della pretesa di un’assenza di tale superficialità. Gli effetti speciali digitalizzati, per quanto sicuramente più realistici e creativamente più fluidi di quelli di un tempo, contribuiscono a questa sostanziale diminuzione del fascino, che punta alla costruzione magari di universi più coerenti e complessi, anche seguendo franchise che necessitano una propria coerenza interiore. In questa sorta di autoerotismo industriale e artificioso, è difficile provare simpatia per il presente, anche perché tendenzialmente i film più belli e importanti del genere, come I Guardiani della Galassia, Vol. 2, sono comunque quasi sempre opere in ogni caso relativamente ribelli, diverse. Ma a meno che il divertimento o l’emozione non derivino da una qualche finezza metatestuale, la meraviglia è un qualcosa che a volte sembra mancare, soprattutto quando è asservita a una sceneggiatura particolarmente debole. Il marinaio fittizio dei cicli mitici mediorientali Sinbad ha trovato nel cinema uno spazio particolare, soprattutto grazie a una trilogia di film prodotti dalla Columbia i cui effetti speciali sono sempre stati supervisionati dal grande Ray Harryhausen, e il primo di questi tre film è un perfetto antidoto rispetto alle masse plasticose dell’archetipale blockbuster moderno. Gli effetti speciali che inseriscono mostri di ogni tipo in stop-motion possono forse risultare datati, ma la maniera complessa con cui sono mischiati alle figure umane riesce comunque a sfigurare per competenza tecnica; e soprattutto è importante quanto sia palese e sbandierata la leggerezza della sceneggiatura, votata a mettere in risalto il recupero della mitologia come motore universale delle faccende umane e, qui, di quelle cinematografiche, superiori per potenza immaginifica e inferiori per realismo.
Il settimo viaggio di Sinbad è ufficialmente, come titolo lascia intuire, il settimo film di Sinbad, preceduto da una serie di lavori che includono sia avventurosi film di grandi case di produzione sia cortometraggi animati tra i quali uno prevede l’incontro tra Sinbad e nientepopodimeno che Braccio di Ferro. Diretto da Nathan Juran, già regista del cult La mantide omicida (1957) dall’anno precedente, il film ha una sceneggiatura colma di buchi, scelte narrative superficiali atte solo a mandare avanti la trama e personaggi che agiscono in modo più o meno illogico. Il Mito, nello sguardo dello spettatore medio americano a cui il film è destinato, è un delirante micromondo postmoderno che in sé include Allah come Omero con i suoi ciclopi o con Scilla e Cariddi, o anche la lampada magica di Aladino e i draghi di Sigfrido e de I Nibelunghi di langhiana memoria. In questa superficiale visione di un piccolo sguardo su un grande immaginario senza capo né coda, la semplicità sembra la chiave per la perfetta penetrazione in un universo involontariamente nostalgico, quanto colmo di grandi trovate. Sinbad è di ritorno verso la Baghdad di cui è principe, e porta con sé la principessa con cui ha instaurato una storia d’amore, la quale è parzialmente il motivo per una ricerca di pace tra il paese di lei e quello di lui. Nelle ultime fasi del viaggio, a loro si aggiunge il mago Sokurah che è pronto a tutto pur di riappropriarsi della propria lampada magica persa sull’isola dei ciclopi, anche a costo di rimpicciolire la principessa in assurdi piani di ostilità verso la pace tra le due fazioni. In questa trama semplicissima vale tutto: vale ogni ingenuità nella storia, vale ogni parentesi nel tempo e negli immaginari delle diverse epiche, vale ogni trovata di Harryhausen, tra le quali spicca uno scheletro spadaccino che precede la celeberrima armata ne Gli Argonauti (1963) di Don Chaffey da lui creata; e tutto ciò, ancora oggi, può creare stupore e divertimento a livello completamente naïf. È un cinema puro e senza pensieri, quello di Nathan Juran, fatto di pozioni e di tesori, di geni della lampada e di creature mostruose, nella cui costruzione non può che essere trovata una certa grandezza, un afflato epico che si pone fuori dal tempo.
Con la sconfitta del drago da parte della gigantesca balestra che sancisce la vittoria della tecnica sulla magia (e forse del tecnicismo sull’inventiva, anche se forse la prima trilogia tolkieniana di Peter Jackson è stata una pietra tombale più definitiva sull’immaginazione a livello fantasy), si chiude un’opera di grande importanza sull’immaginario collettivo del cinema fantastico. Ma la sua grandezza non è certo un qualcosa da ricercare o ritrovare all’interno di una qualche ironia, non è certo un appello a quell’abusatissimo e inesatto termine: ‘trash’. C’è una vera bellezza, nascosta nei meandri di qualcosa che può sembrare così diverso per i nostri occhi stanchi e appisolati dal ripetersi ostentato dei simboli di altro. C’è più sincerità nella costruzione dei mostri di Sinbad che nello sguardo di un qualsiasi supereroe: le Mille e una notte diventano viaggio nella cinefilia, nella magica lampada di una magia che è magia vera e magia di celluloide, nel colore delle fantasie del passato remoto che diventano quelle del passato recente, nella malvagità di un futuro/presente meno artigianale in cui è più problematico tentare di credere negli eroi e nelle prospettive della follia. Al punto che è difficile immaginarsi qualcosa del genere fuori da una sala cinematografica (e in particolare fuori da una sala come quella del Cinema Arlecchino, dove Il settimo viaggio di Sinbad è stato proiettato al 31mo Cinema Ritrovato) ed è difficile immaginare altre parole da spendere, oltre alla meraviglia per il dolce, potentissimo, necessario infantilismo che sa evocare.
Nicola Settis